lunedì 15 aprile 2019

“Un anno dopo”, le sorprese del quotidiano



Lo stesso ufficio, la stessa postazione, il lavoro più noioso al mondo (inserire dati in un computer), perfino gli stessi gesti nel passare da un quadro narrativo all’altro. Sembra incredibile che ci si possa scoprire persone anche lì. Applaudito al Teatro Nuovo di Salerno nell’ambito di Atelier, la rassegna di Loredana Mutalipassi e Antonio Grimaldi, “Un anno dopo” di Tony Laudadio per la regia di Andrea Renzi sintetizza trent’anni di vita lavorativa in una serie di scene che colgono di sorpresa il quotidiano. Ogni “fotogramma” infatti getta una luce diversa su giorni ancorati a un contesto asfittico. L’ufficio non a caso è privo di finestre e gli appendiabito a rotelle, provocatoriamente muniti di stampelle colorate, delimitano uno spazio che promette immutabilità. Eppure, così come i confini possono essere ridefiniti (lo spostamento degli appendiabito), anche la più anonima delle giornate rivela la natura di chi la vive attraverso dialoghi dal ritmo brillante (“Sai che siamo in un regime capitalistico?” “Davvero? Credevo che fossimo solo poveri”; “Non ci può essere amore in una provincia” “Al massimo ci si vuol bene”). Se Goffredo (l’energico Arturo Scognamiglio) è un chiacchierone che si mostra intraprendente e a cui la vita provinciale sta molto stretta, Giacomo (Ettore Nigro, attento a ogni dettaglio) è tutt’altro che propenso a spendere parole, tranne nel momento di un acuminato sarcasmo. L’ambiente anestetizzante diventa lo spazio di una specularità sfaccettata. Lo slancio energico di Goffredo, che  rimprovera al collega di essere morto perché privo di iniziativa, potrebbe essere l’esito della vita del suo interlocutore, che a sua volta, nel disincanto e nella concretezza, potrebbe incarnare l’evoluzione dell’impiegato con cui divide le giornate. L’estrema coerenza con cui sono tratteggiati i protagonisti non li rende comunque prevedibili. Giacomo ama scrivere sinossi, perché l’essenziale diventa marginale in  una dimensione estranea a ciò che è umano; la passione per le giovanissime, fatale a Goffredo, è il fatuo rincorrere un’ansia di dinamismo e cambiamento puntualmente vanificata, dato che è troppo difficile eludere il copione cucito sulla pelle da momenti sempre uguali. Poiché però sono i piccoli cambiamenti sotterranei a fare la differenza, l’amarezza silenziosa di Giacomo nello scoprire la mancanza del compagno e la tendenza di quest’ultimo a imitare gesti e ironia dell’uomo che ha sempre avuto sotto gli occhi preparano una riscossa dinanzi alla routine. Nella scena conclusiva troneggiano come vedette sulla scrivania in un tripudio di fogli gettati all’aria. Hanno imparato ad abitare il tempo, a non scomparire nel suo gorgo. “Il futuro è un predatore”, avverte Giacomo. Per questo un attimo condiviso è più importante di stanche, inutili certezze.

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