Non bisognerebbe
mai abbassare la guardia. Il pericolo si annida nella più ordinaria delle
situazioni, come permettere l’ingresso a una signora energica e ciarliera. In
programma al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno il 28 dicembre alle 21 e il
29 alle 18.30, “Una stanza al buio” di Giuseppe Manfridi, per la regia di Angelo Ruocco, vede l’amministratore di un condominio cedere alle pressioni di
una sconosciuta in visita all’appartamento in cui si è consumato un omicidio,
come mostra la sagoma in gesso sul proscenio. Nella finta noncuranza con cui
perlustra ogni angolo, la visitatrice (Cinzia Ugatti in una delle sue
interpretazioni migliori, capace di dominare la scena a ogni passo) mette a
nudo ciò che si preferirebbe tacere, come le intemperanze sessuali della
vittima (rivelate dalle voci di Mimma Virtuoso, Brunella Caputo, Alfredo Micoloni,
autore anche delle musiche, in una videocassetta) e quel che l’uomo (un Matteo Amaturo che
tratteggia con saggezza la propria fragilità) vorrebbe tenere per
sè: le proprie velleità artistiche ridicolmente smentite dall’essere un
marmista del cimitero, il bisogno di ordine che nasconde l’esigenza di fuggire
da una vita di “soli pensieri”, il sentimento mai spento che lo legava alla
donna dell’ucciso. Il gioco di luci diVirna Prescenziobasta alla
regia per evidenziare ciò che la stanza diventa inesorabilmente: una prigione
in cui l’assedio verbale della donna costringe all’angolo l’interlocutore, fino
a renderlo strumento di un piano diabolico. La sagoma di gesso è a suo modo una
prefigurazione: in quella stanza si consuma un secondo omicidio, dato che il
protagonista sarà costretto all’estremo sacrificio di sé. La pièce celebra il
potere venefico delle parole, che si insinuano nella mente fino a soggiogarla e
a farla piombare nella rovina proprio lì, dove tutto sembrava prevedibile e
consueto.
C’è
poco da fare. “Un uomo che ti cerca e che ti pensa t’arravota sana sana”. Ma il
prezzo per avere anche solo un briciolo della sua attenzione –e quindi
esistere-può essere davvero salato. Del
tutto a suo agio con il surreale del quotidiano, Gea Martire ha strappato molti
applausi a scena aperta alla platea del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno
con “Mulignane”, lo spettacolo tratto da un racconto di Francesca Prisco e
diretto da Antonio Capuano. L’esilarante percorso da larva a bomba sexy, ovvero
da vittima delle circostanze a donna consapevole della propria forza, sa
trasformare una crudeltà sadica in occasione di divertimento grazie al carisma
dell’interprete, abilissima nel dar corpo e voce a un “brutto anatroccolo” e
agli altri personaggi che pretendono di conoscere, giudicare, colpevolizzare,
compatire, quando in realtà ne condividono fino al parossismo gli aspetti
grotteschi. Non è un caso che all’accensione delle luci, in una scena
essenziale (abiti appesi sullo sfondo, un sedile al centro del palco), appaia
di spalle in un atteggiamento dimesso, come se non importasse poi tanto
guardare il suo viso (e la sua anima), così come non è casuale che lavori in
un’agenzia pubblicitaria, dove l’apparenza è tutto e una scollatura generosa
vale più di ogni professionalità. Mica facile sopravvivere al peccato più
orrendo, la condizione di zitella. Attraverso una caustica esasperazione della
mimica (i movimenti di un robot impacciato, la difficoltà nel mettere a fuoco, il
rapporto contraddittorio con i propri desideri), la protagonista diviene
cartina di tornasole della cattiva coscienza di chi si sente perfettamente
integrato in un sistema di relazioni di cui è “indegna”: basterebbe pensare
all’ingombramte madre, finalmente cacciata di casa mentre si appropria del più
grosso dei vibratori gelosamente custoditi dalla figlia. Trasformarsi da “pietra
grezza” in “diamante” provoca l’allontanamento del brutale amante che le regala
le mulignane, ovvero i lividi, del titolo, insofferente della sua rinascita. Lo
spettatore percepisce però l’aspetto disturbante di questo trionfo. Il mondo
appartiene ai dominatori, a chi sa schiacciare gli altri sotto il proprio ego.
Che questo sia dimostrato con una vis comica fuori dal comune non toglie nulla
a un teorema inquietante. (foto di Adele Filomena)