La miseria, la
sfrontatezza, l’amore. Ma anche la forza di battersi per i propri sogni,
soprattutto quando sognare è l’unica via d’uscita. Con lo spettacolo “Simile a
Cristo”, il regista Antonio Grimaldi ha proposto al Teatro Nuovo di Salerno una
rilettura del capolavoro di Raffaele Viviani, “Zingari”, secondo l’approccio
che gli è più congeniale: condurre al parossismo le possibilità espressive del
corpo e giocare la messinscena sul filo del simbolismo e di un’allegoria che
colpiscano immediatamente lo spettatore.Pia Ansalone, Emiliano Avallone, Leopoldo Brindisi Malanga, Gemma de Cesare, Gianluca De Stefano, Rossella Forziati, Gabriella Landi, Chiara Manzo, Alessandra Menchini,Gabriella OriliaAnna Piccolo, Mat Thew, Alfonso Tramontano Guerritore costruiscono una
vicenda in cui il testo diviene lo spunto per aprire un conflitto irrisolvibile
tra l’anarchia del desiderio e la legge del branco, che riconosce solo se
stessa. Gennarino, il protagonista, vuole imporsi al di sopra di essa.
All’inizio della messinscena, non a caso, è posto su di un piedistallo che
sovrasta gli interpreti striscianti in un mare di fiori che gli spettatori sono
stati invitati a gettare sul palco: quello che si vede è più vicino di quel che
sembri- chi non ha sognato e cercato di difendere quel sogno?- e il
“contributo” alla scenografia crea un’empatia con la platea. Il Diavolone, il
padrone di questo mondo geloso dei propri riti tribali, siede al lato di quel
mare umano con la sicurezza di chi è chiamato a guidarlo. Palomma, oggetto del
desiderio di entrambi, è vittima della sua fragilità che appassisce in questo
gioco di sopraffazioni ed egoismi. Gli attori creano movimenti scenici che
ondeggiano di continuo tra la crudeltà e l’attonito assistere alla capacità di
rigenerarsi che solo la passione può avere. E proprio come Cristo, Gennarino
muore e risorge inseguendo una felicità destinata a fossilizzarsi in un unico
eterno istante(si pensi al beffardo fermo-immagine in cui l’aguzzino di Palomma
si muove ironico tra i partecipanti al suo sposalizio, immobili come statue).
Eppure un’anima non può tradire se stessa: sarebbe quella la vera morte.
Sa divertire come pochi, ma
il disimpegno non è nelle sue corde. Sguinzaglia la forza anarchica del
linguaggio, ma il gioco è sempre proteso oltre se stesso, verso il
coinvolgimento senza filtri dello spettatore. Esponente di spicco della poesia
visiva e aperta da sempre a ogni sorta di sperimentazione artistica, Tomaso
Binga, al secolo Bianca Pucciarelli Menna, è stata applaudita presso la Galleria Tiziana
Di Caro di Salerno nella sua performance Atterraggi poetici pericolosi
nell’ambito di Salerno Letteratura. Accompagnata dal sassofono di Michele
Vassallo, ha recitato composizioni frutto di una poetica dai cardini ben
precisi: la vocazione dell’artista ad aprire gli occhi, la denuncia
dell’ottusità del potere, la necessità di un mutamento nella prospettiva. “Con
quaranta gradi all’ombra e novantotto di umidità” è una sineddoche al vetriolo,
in cui a ogni parte del corpo corrisponde un atteggiamento ostile: l’occhio che
guarda la “roba espropriata per carità”, ovvero le ricchezze della Chiesa; il
braccio che colpisce “angeli e galeotti/assetati di sole”, il “culo” che “non
ha storia”, è “un infortunio sul lavoro”, appannaggio dei poveri “in cerca
d’identità”. Si prosegue con “La storia”, in cui l’interrogativo esistenziale
sul rapportarsi agli avvenimenti diventa sarcastica escursione nel vocabolario
(come porci con la storia? Come porci, orci, sorci, occhi?) per invitare a un
approccio tutt’altro che passivo, senza dimenticare che “tutti i capi sono rei”
e dunque solo chi ha un atteggiamento critico verso il potere non ne è
schiavo.“Azzerare i lazzaroni” è uno degli scopi di “Mutazioni”, in cui il
ritmo martellante che culmina nel titolo rovesciato è uno sprone a cambiare se
stessi e il proprio contesto e con la stessa energia sono ribaltate le
categorie di genere in “Io sono una carta”. Un dolente senso di riscatto
civile è alla base di “La bella addormentata”, ovvero la pace, vegliata, non a
caso, da donne che nel sepolcro attendono pazienti il suo risveglio (Binga non
perde mai d’occhio i molti ostacoli che impediscono tuttora alle donne di
realizzarsi e realizzare qualcosa che duri). Oggetto di lucida derisione è
infine la retorica fuorviante e deformante del politichese in “Porcondiciò”,
opera tutta basata sulla questione delle “ruote rosa”, “le ultime ruote del
carro”, con la speranza che il “Porcondiciò” diventi par condicio. Il messaggio
è più che chiaro: attraverso un uso funambolico della lingua, l’autrice vuole
una piena affermazione della dimensione femminile del vivere, in poche parole
della libertà, della creatività, dell’impegno a non tradire la propria natura.