lunedì 11 agosto 2014

“Vite in pericolo”, l’omaggio al gioco e al teatro di Pippo Montedoro



Che uno scrittore dia prova di uno stile piacevole non è cosa poi così rara. È invece un’eccezione che quella piacevolezza nasca da sensazioni che mostrano l’aspetto sorprendente dell’assodato e da un’ironia a suo modo aristocratica, ma ben distante dalla saccenza e dall’autocompiacimento. È quello che sperimenta il lettore di “Vite in pericolo” di Pippo Montedoro edito da Qanat. I racconti sospesi tra memorie e fantasie s’insinuano con leggerezza (una leggerezza gravida di colori e sapori che si ritrova nella prefazione di Salvo Piparo) e di colpo il mondo di Montedoro diventa il nostro, che sia la cella dell’Ucciardone, la Vucciria o un bosco in cui non ha più senso distinguere l’animale dall’umano. L’autore ama definirsi goloso ed estende questa caratteristica al suo lessico colto e carnale. Le parole sono in effetti scelte con autentica golosità, desiderate per la loro concretezza e spesso per la loro dolcezza, si offrono agli occhi e al palato con una fisicità spudorata. C’è il rischio di non guardare mai più con gli stessi occhi la flanella dopo la descrizione erotica che il libro ci regala in uno dei molti pezzi di bravura. Ciò che unisce le parti dell’opera è la passione per il gioco, concepito come sovvertimento, urgenza di riscrivere ciò che si vorrebbe fissato definitivamente. I protagonisti di “A.D. duemilaventisette – sorrisi” giocano con l’immagine stereotipata che gli altri hanno (quando ce l’hanno) di loro; in “Sentimenti senza quartiere” si gioca con l’avidità di pusher stranieri; in “buon Vino a cattivo Gioco” il viviri (vivere) dipende dal giusto rapporto col viviri (bere); in “1973, Ucciardone - lectio elegantiae” i legami inattesi della reclusione mandano a gambe all’aria il modo perbenista di creare relazioni. In “non ci pensare, Lazzaro” la posta è il desiderio irrealizzato. “Ready Made” deride nella sua lapidarietà la vita equilibrata, “Fiato” spiazza di continuo la percezione di chi legge, “E il ritorno lo faceva a piedi” prende di mira il genere fantasy e la pretesa di riscattarsi dai propri limiti.  Il gioco pervade anche l’appendice, “Il pallore d’Achille”. In “Quistiuni” le domande al Piè Veloce rivelano, tra assonanze e paranomasie, l’ostilità verso la superbia del potere. La “pulita” coscienza borghese è sarcasticamente punita in “Fine (sceneggiatura per video fasullo)”, mentre l’esaudirsi di una volontà porta a uno pseudo-trionfo beffardo in “Le richieste di Felice”. “Di Eos molto presto” illustra l’alto prezzo da pagare per l’estinzione del genere femminile sul piano mitologico, mitopoietico, sociologico. Si ha poi la sintesi in dieci parole di principio e fine in “Serata (romanzo completo)” e i problemi striscianti, ma non irrilevanti di una lumaca  in “Chi va piano… No, Ah?!”. E se la convenzione in tutti i suoi volti è il bersaglio dello scrittore, ben si comprende l’uso ossessivo della virgola interrogativa, che imprime all’andatura della frase un ritmo del tutto autonomo. “Vite in pericolo” è però anche un atto d’amore indiscusso per il teatro, come mostra “Colonia penale e altre fragranze”, che rievoca i fasti della compagnia Curò, tra i cui fondatori c’è il Nostro, attiva a Palermo e non solo nella felice e contestatissima stagione degli anni Settanta, vivi nel bianco e nero ammaliante delle foto di Letizia Battaglia. Allora era vitale che il palcoscenico si spingesse oltre se stesso, che l’azione scenica divenisse un campo di forze pronte a fare a pezzi qualunque gerarchia mentale e fisica, che il nonsenso si tramutasse in possibilità di senso da condividere e magari calpestare con gli spettatori. Quella di Curò era una lotta senza respiro contro l’acquiescenza al sistema, un inno all’inventiva, un oltraggio a quelle prigioni che sono le categorie, una riflessione a briglia sciolta sull’ambiguità volutamente irrisolta di ruolo, luogo, parola. Montedoro resta uomo di teatro anche nella scrittura. Lo evidenzia la costruzione della tensione, la cura riservata alla mimica dei personaggi, il rapporto quanto mai duttile col tempo della narrazione. E se, come recita la frase di Piero Ciampi citata nel testo, “Il corpo è un sublime/atroce porco”, la materialità imperfetta, evocativa e seducente di questo volume è la migliore risposta a ogni forma di ottusità.

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