Esistono molti modi di
costruire una prigione: inchiodare alla propria (imperdonabile) diversità
biologica, per esempio. Non si sconta mai abbastanza la colpa di essere donna
in “Dissonorata”, lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina, che ha aperto con
successo presso il Teatro del Giullare di Salerno “Per voce sola”, la rassegna
a cura dell’associazione Erre Teatro di Vincenzo Albano. La messinscena, che
trova un’eco raffinata e dolente nelle musiche originali eseguite dal vivo da
Gianfranco De Franco, trae forza da una nudità che è crudeltà e urgenza di
raccontare per dare voce a chi non può esprimersi. La scelta di porre al centro
della scena solo una sedia dove il regista è Pasqualina, vittima della cecità
altrui prima ancora che della propria, esprime la claustrofobia di un
personaggio condannato al disprezzo e alla solitudine e al tempo stesso, in
quell’isolamento che toglie il fiato, conduce memorie, sensazioni, desideri ad
avere finalmente il diritto di esistere. Non è casuale che la vicenda venga
narrata a ritroso: a chi ha la sventura di nascere femmina è negata una
prospettiva nella Calabria a dir poco primitiva che scandisce il tempo tra i
campi, il bestiame e la volontà degli uomini. Che sia poi un uomo a impersonare
la protagonista diviene naturale: in questo mondo geloso dei propri riti, la
dimensione femminile non può che essere filtrata attraverso l’ottica maschile,
la sola che conti, e La Ruina
non potrebbe essere più autentico nel creare una ragazza che sogna le nozze,
l’unico passaporto per una vita vera. Quando le luci si accendono, il corpo
oscilla come sotto il peso di un’amarezza che si può solo respirare e che si fa
fatica a comunicare: si avverte tutto il peso di un condizionamento
inaggirabile, tanto da avere la sensazione che mille occhi osservino alle sue
spalle per schiacciare sotto il proprio giudizio. La corposità del dialetto
calabrese permette di restituire ogni cosa alla sua essenza con una limpidezza
che stordisce. La voce dell’artista è straordinariamente duttile nell’oscillare
tra angoscia, trepidazione, ironica concretezza. La più antica delle storie
(una ragazza incinta abbandonata dal suo amante) si carica di una tensione
altissima: il fratello le dà fuoco, ma lei riesce a partorire Saverio in una
stalla, proprio nel giorno di Natale, al cospetto di un cane e di un maiale. Questa
nascita, che si carica di sospensione magica, allude alla sacralità laica
dell’esistenza, al suo valore che pulsa e si fa strada in quella cappa di
piombo che è l’odio per ciò che osa essere diverso. Lo sguardo di Pasqualina
resterà fisso al suolo, come si chiede a una donna dabbene, sulle note beffarde
di “Gracias a la vida”. Eppure il miracolo si è compiuto: ha lasciato, malgrado
tutto, una traccia di sé.
“Me ne intendo di si”, dice
il dottore che crede di avere nelle proprie mani la donna che gli sta di
fronte. Ma non si può chiedere alla principessa della Colchide di rinnegare se
stessa e ciò che è scritto nella carne torna a sconvolgere ogni punto di
riferimento. “Close Up Medea” è lo spettacolo che Teatrazione Teatro ha
proposto con successo all’Arco Catalano Fest di Salerno. Ispirata liberamente
al “Purgatorio” di Ariel Dorfman, la messinscena è costruita su di una
corporeità che si fa eco di quel che si vorrebbe cancellare: l’impossibilità di
concepirsi separati da ciò che ha mutato per sempre un percorso, il desiderio
di protendersi in un altrove da riscrivere, un amore malato per quel che è
stato distrutto ma sopravvive nel ricordo. Molto più di una follia a due. Giasone
e Medea sono di volta in volta se stessi e i propri medici, rivolti a una
redenzione che non si concretizzerà mai (un Igor Canto che oscilla sagacemente
tra flemma e fragilità e una Cristina Recupito cosi intensa da lasciare
interdetti) non perché l’identità sia quanto mai labile, ma perché passato e
presente, azione e resa dei conti sono solo i nomi da dare al rapporto
irrisolvibile con ciò che si è stati e si potrebbe essere. Quando all’inizio
della pièce i due emergono da un drappo rosso come da una crisalide e si
allontanano solo all’apparenza, uniti da esso, che ha il colore della vita e
del sangue, esprimono quella prigione inviolabile che è l’io, costretto a
contemplarsi e rivivere nell’altro. È in quel drappo che viene avvolta colei
che ha osato divenire tomba dei suoi figli e a lei viene consegnato il pugnale
dell’uccisione: il ricatto che inchioda il colpevole alla colpa per manipolarlo
meglio. La piccola telecamera che filma gli incontri allude a una logica
superiore in cui inquadrare la vicenda, ma è solo l’ennesimo inganno di chi si
creda superiore alle pulsioni e all’irrazionale. “Non saprei dove andare”,
dicono i personaggi vestiti da medici, come a dire che non si può guardare
dall’alto la forza oscura del desiderio e della distruzione, ma solo lasciarsi
attraversare da essa. E quando Medea contempla con una tenerezza dolente la
stoffa rossa (la vita persa eppure presente) e i due tornano a distendersi al
suolo sulle note di “Cu te li dissi” d Rosa Balistrieri,leit-motiv di quel che non è possibile
dimenticare, il bisogno ancestrale di perdersi in chi è di fronte inghiotte
tutto e il corpo dell’uno si fa confine e orizzonte del corpo dell’altro.
È ancora il banco di prova
più insidioso per un interprete. Il monologo è il momento in cui chi si
consacra al palcoscenico non deve temere di dare tutto di sé e proprio su esso
è costruita “Per voce sola-Parole della nostra scena”, la rassegna attuata
dalla Erre Teatro di Vincenzo Albano che guarda ai fermenti della moderna
dimensione teatrale e al coinvolgimento delle energie del territorio
salernitano. Gli spettacoli si terranno presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno e
a fare da apripista sarà, il 26 settembre, “Dissonorata- Un delitto d’onore in Calabria”,
scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina con musiche originali eseguite dal vivo da
Gianfranco De Franco. Reduce da numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio UBU
2007 per il Migliore Attore e Migliore Testo Italiano, l’artista descrive un
contesto solo all’apparenza lontano, in cui la donna non ha diritto di essere e
di ascoltare se stessa, mescolando amarezza e ironia. Il 3 ottobre sarà la
volta di “Trittico del mio byte” di Luca Trezza, articolato in “Abbakkoapertaà”, in cui la perdita di una madre è anche
perdita del proprio mondo interiore, “Neo’ melo’ Diko”, dove i sogni di gloria
di un cantante neomelodico in America diventano bilancio destabilizzante,
“Racconto di fine mese verso le 3 e1\2della notte”, che vede protagonista un anziano,
affetto da “arteriosclerosi digitale” alle prese con il racconto delle proprie
vicende. Le tre stagioni della vita sono altrettanti tentativi di riconoscersi
in un mondo che antepone la conoscenza virtuale a quella dell’anima. Mimmo
Borrelli, tra i più importanti drammaturghi contemporanei, terrà inoltre un
laboratorio intensivo sul monologo,“La grammatica messa in corpo dell’attore”
dal 20 al 22 ottobre, dalle 14 alle 20, al costo di 120 euro, per un numero
massimo di 15 allievi, che potranno inviare i loro dati a erreteatro.info@gmail.com.
Il 24 ottobre è prevista la messinscena di “Cante e schiante”, dove lo stesso
Borrelli, accompagnato dalle musiche di Antonio Della Ragione, porterà alla
luce tutta la turbolenta intensità di Torregaveta e dei Campi Flegrei,
un luogo riconoscibile e al tempo stesso defornato dall’urgenza di mescolare il
buio e la luce. Il solo spettacolo che si terrà al Centro Sociale di Via
Cantarella il 17 ottobre sarà “La merda” di Cristian Ceresoli, con Silvia
Gallerano, dove tre tempi, Le Cosce, Il Cazzo, La Fama e un controtempo,
L’Italia, sono vissuti da una donna che racconta nel modo più impudico
l’oscenità di un tempo che ha deciso di essere sepolto dalla propria
incongruenza.