lunedì 29 settembre 2014

“Dissonorata”, la fatica di essere donna



Esistono molti modi di costruire una prigione: inchiodare alla propria (imperdonabile) diversità biologica, per esempio. Non si sconta mai abbastanza la colpa di essere donna in “Dissonorata”, lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Saverio La Ruina, che ha aperto con successo presso il Teatro del Giullare di Salerno “Per voce sola”, la rassegna a cura dell’associazione Erre Teatro di Vincenzo Albano. La messinscena, che trova un’eco raffinata e dolente nelle musiche originali eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco, trae forza da una nudità che è crudeltà e urgenza di raccontare per dare voce a chi non può esprimersi. La scelta di porre al centro della scena solo una sedia dove il regista è Pasqualina, vittima della cecità altrui prima ancora che della propria, esprime la claustrofobia di un personaggio condannato al disprezzo e alla solitudine e al tempo stesso, in quell’isolamento che toglie il fiato, conduce memorie, sensazioni, desideri ad avere finalmente il diritto di esistere. Non è casuale che la vicenda venga narrata a ritroso: a chi ha la sventura di nascere femmina è negata una prospettiva nella Calabria a dir poco primitiva che scandisce il tempo tra i campi, il bestiame e la volontà degli uomini. Che sia poi un uomo a impersonare la protagonista diviene naturale: in questo mondo geloso dei propri riti, la dimensione femminile non può che essere filtrata attraverso l’ottica maschile, la sola che conti, e La Ruina non potrebbe essere più autentico nel creare una ragazza che sogna le nozze, l’unico passaporto per una vita vera. Quando le luci si accendono, il corpo oscilla come sotto il peso di un’amarezza che si può solo respirare e che si fa fatica a comunicare: si avverte tutto il peso di un condizionamento inaggirabile, tanto da avere la sensazione che mille occhi osservino alle sue spalle per schiacciare sotto il proprio giudizio. La corposità del dialetto calabrese permette di restituire ogni cosa alla sua essenza con una limpidezza che stordisce. La voce dell’artista è straordinariamente duttile nell’oscillare tra angoscia, trepidazione, ironica concretezza. La più antica delle storie (una ragazza incinta abbandonata dal suo amante) si carica di una tensione altissima: il fratello le dà fuoco, ma lei riesce a partorire Saverio in una stalla, proprio nel giorno di Natale, al cospetto di un cane e di un maiale. Questa nascita, che si carica di sospensione magica, allude alla sacralità laica dell’esistenza, al suo valore che pulsa e si fa strada in quella cappa di piombo che è l’odio per ciò che osa essere diverso. Lo sguardo di Pasqualina resterà fisso al suolo, come si chiede a una donna dabbene, sulle note beffarde di “Gracias a la vida”. Eppure il miracolo si è compiuto: ha lasciato, malgrado tutto, una traccia di sé.

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