lunedì 3 novembre 2014

“Cante e schiante”, il cuore dei Campi Flegrei



“Quello a cui assisterete non è uno spettacolo, ma una lettura animata con personaggi e oggetti in cui sarete anche voi artigiani della visione”. Entrare nel mondo di Mimmo Borrelli è sorprendentemente facile. Qualsiasi diaframma tra lui e lo spettatore si dissolve in “Cante e schiante”, l’atto d’amore verso il “popolaccio ostile” dei Campi Flegrei che ha concluso “Per voce sola. Parole della nostra scena”, la rassegna ideata e diretta da Vincenzo Albano sostenuta dalla rivista Puracultura. Al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno letteralmente invaso dal pubblico, Borrelli, in cui condivisione e concretezza marciano di pari passo, ha spiegato le dinamiche della performance ispirata a “A sciaveca”, frutto di una lunga gestazione nel passaggio dai versi al palco, così che l’irruenza del dialetto potesse fluire senza ostacoli, ironizzando sulle suggestioni con cui si è misurato (le stimmate di Tonino o Barbone che ricordano Cristo, ad esempio, perché “O cattolicesimo m’ha accis pur’a me!”). Tra pochi oggetti in scena sufficienti a creare un contesto (un bastone, uno sgabello, dell’acqua), in un testo che sembra scritto nella carne e che fa emergere bellezza e orrore come la sciabica, la rete da traino che cattura alghe e pesci, la forza evocativa della parola materializza un immaginario nutrito da passioni, rancori, visioni, brutalità, tenerezze, bestemmie apotropaiche, ansia insopprimibile di vivere. Mutamento e immutabilità si mescolano nella storia dell’amore calpestato tra Angela e Tonino, ucciso con l’inganno. Cinquesecce, il fratellastro di quest’ultimo che la stupra insieme a due balordi, è a sua volta nato da uno stupro. La stessa sorte subisce da parte del padre Pacchione, un monco che l’artista crea curvo e con due scodelle che gli nascondono le mani (un’inazione schiacciata dal peso della consapevolezza e che non può sanare le sue ferite aggrappandosi a una croce di legno, immagine di un sacrificio senza redenzione) e la stessa brutalità torna nel terzo fratello, Peppe Schiumetta, un prete preoccupato solo di se stesso. La trasformazione di Tonino redivivo in pesce e di Angela in delfino, l’animale che fa da tramite tra immanenza e trascendenza, esprime in una dimensione fiabesca la rivalsa della vita sulla morte (il colera che è anche malattia dell’anima). E solo il mare, che annulla ogni concetto di spazio e tempo, avrebbe potuto raccontare una vicenda in cui tutto può morire e tutto può rinascere.

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