martedì 2 febbraio 2016

“Porno teo kolossal”, l’orrore e la rinascita



Quando tutto crolla nel più crudele dei modi, non vi è che una possibilità: ricordarsi che non esiste la fine. Concepito per Totò e, dopo la sua morte, per Eduardo, “Porno teo kolossal” è l’ultimo copione pasoliniano che Anna Bonaiuto ha fatto rivivere con la sua voce calda e duttile nell’essenziale regia di Francesco Saponaro presso il Teatro Diana di Salerno. Uno scrittoio, una sedia, un leggio risultano più che sufficienti: è la parola che deve creare, smascherare, sconvolgere e sedurre. Sono infatti le parole dell’autore de “Le voci di dentro” e di Pasolini a risuonare per un attimo fuori campo prima che l’interprete guidi il pubblico in quel viaggio immerso nell’incubo e nel sogno che il re mago Eduardo compie con Ninetto Davoli per giungere al Messia. La cometa che li guida non ha nulla di salvifico. Getta al contrario luce su tappe di un orrore che assume nomi antichi (Sodoma-Roma, Gomorra-Milano, Numanzia-Parigi) per mostrare come l’uomo non rinunci alla sua ansia di distruzione in ogni momento e in ogni luogo. E in ogni momento e in ogni luogo ciò che esula dalla norma, il non programmabile, ovvero l’anarchia del desiderio,scatena la violenza più brutale: l’amore eterosessuale punito a Sodoma, quello omosessuale colpito a Gomorra. Come già in “Salò”, tutto è sovrasposto, cannibalizzato dagli sguardi prima ancora che dai corpi: il sangue e lo stupro devono divenire spettacolo in una sorta di antipedagogia che annichilisca ogni senso di solidarietà. Né gli intellettuali appaiono capaci di offrire vie d’uscita, dato che proprio il poeta che istiga al suicidio il popolo di Numanzia per non cadere nelle mani dei fascisti si vende proprio a loro che lo uccideranno per un inutile dissapore, non certo per salvare una qualche libertà. La distruzione delle tre città, più che alludere a una punizione divina, è naturale conseguenza di una civiltà che ha scelto la morte in tutte le sue forme. “Porno teo kolossal” declina la graffiante desolazione del deserto in cui fiorisce, malgrado tutto, la vita. Giunti ad Ur, dove il tempo sembra ricongiungersi al suo inizio, i due scoprono che la grotta del bambino è ormai vuota, il Messia è morto e un bimbo vende oggetti che lo ricordano (il capitalismo mercifica il sacro, lo riduce a scheletro beffardo) e, stroncato dal dolore, Eduardo si ritrova in paradiso sotto la guida dell’angelo Ninetto: Pasolini ha sempre creduto che gli ultimi fossero destinatari e messaggeri di un verbo nuovo, di uno sguardo puro. Anche il paradiso tuttavia è vuoto (la minzione del vecchio è solo l’ultimo atto di una dissacrazione di allucinante coerenza), ma quel grumo improbabile che è il mondo comincia ad emettere suoni, lontani canti di riscatto. Si può solo attendere: forse il nulla attende di essere riempito di un nuovo slancio vitale. Forse, alla fine del buio, ci sarà l’unica resurrezione che conti, quella della propria umanità.

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