Vallo a spiegare ai “commessi della vita”, a quelli
che sono tutto ordine e responsabilità e liquidano la faccenda come un trionfo
della sfortuna. Se si vuole ogni cosa, non ci si può accontentare di un denaro
che odora “di concime e galline”, guadagnato nei campi: per perderne tanto, ne
occorre tantissimo. Dostoevskij, che attraverso “Il giocatore” conosceva bene
questo inferno, avrebbe amato “Slot Machine”, lo spettacolo, applaudito presso
la Sala Pasolini di Salerno nell’ambito del programma di Casa del Contemporaneo, ideato e
diretto da Marco Martinelli e prodotto dal Teatro delle Albe/Ravenna Teatro. Alessandro
Argnani costruisce con dedizione generosa un personaggio difficile da
dimenticare, l’uomo che da un fosso in cui è stato precipitato dai creditori cerca
di spiegare la sua ossessione per il gioco: il continuo sforzo di spillare
quattrini, le relazioni bruciate, il desiderio di rivalsa su chi lo guarda con
superiorità, l’amore esclusivo per la slot machine, che legaa sé in una simbiosi gelosa e cieca chi l’utilizza.
Il luogo fisico è però prima di ogni cosa spazio della mente. Il buio riempito
da risate e da parole fatte a pezzi in cui il protagonista si muove con una
torcia all’inizio della rappresentazione con inquietante allegria fanciullesca
e poi con dolente incongruenza è l’ottenebramento di un individuo che può solo
prendere atto della propria schiavitù psicologica. E poiché ogni dipendenza è
impossibilità di sfuggire a se stessi, gli specchi lo attorniano e uno di essi
sovrasta anche la superficie su cui è disteso e da cui fa talvolta fatica ad
alzarsi, che ricorda una pietra tombale e un tavolo da biliardo. Il terreno
lasciato cadere su piccole piante è un modo per celebrare la propria fine e
rimpianto della terra tradita, abbandonata per rincorrere una ricchezza da
dissipare. Le carte lanciate in aria rimandano all’entusiasmo inebetito di chi
non sa rinunciare alle proprie catene, i tentativi di interloquire rendono la
solitudine ancora più impietosa. E quando è disteso e vinto, il regista, con
l’atto del medico che attesta il decesso, gli pone sul viso il drappo verde che
ricopriva uno degli specchi: l’azzardo è infatti tentativo di scoprire altro
per poi trovarsi di fronte il proprio nulla. È questo questo in fondo che il
teatro chiede a un attore, sera dopo sera: giocarsi l’anima. E perderla
Vigilare,
vigilare di continuo. Gli stessi gesti (soffiare su una candela accesa nel
medesimo modo per esprimere la necessità di nutrirsi, salutarsi disponendo le
braccia in attente geometrie), gli stessi ritmi (la nervosa pulizia delle
scarpe, l’elenco delle qualità delle balene con tono all’apparenza
impersonale), addirittura lo stesso modo di comunicare ciò che realmente si
pensa, schioccando la lingua sui denti o sostituendo una risata con
un’onomatopea. E difendere i confini, naturalmente. Tenere ben chiuse le porte.
Ma ciò che è delimitato attende solo di essere superato, violato, modificato.
Attenta riflessione sull’intolleranza e la diversità, “Ho. Me” è lo spettacolo
della compagnia Vernice Fresca Teatro che ha aperto con successo presso
l’Auditorium centro sociale di Via Cantarella la seconda stagione di Mutaverso,
la manifestazione che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico.
L’allestimento, ideato da Martha Festa che è in scena con Jessica Festa, Rossella Massari, Arianna
Ricciardi, si avvale della drammaturgia di Valentina Gamna e della regia di
Massimiliano Foà. Le due donne che costruiscono la loro vita in base a un
preciso copione sanno di doversi difendere dagli stranieri; facile pensare al
dramma dei migranti, ma è proprio la categoria dell’altro a essere temuta e
ripudiata. Lo spazio domestico rispecchia un contesto che vuole riconoscere
solo se stesso, come mostra la vicina armata di fucile. Quando però una donna
che ha perso tutto giunge dal mare attraverso una porta (dimenticata?) aperta, l’equilibrio
si infrange e le protagoniste vivono la ripugnanza, il sopruso, la complicità,
il bisogno di ricominciare. Le attrici sanno creare con spiazzante concretezza
i meccanismi della manipolazione: la danza a cui costringono la profuga è un
tentativo di modellarle l’anima attraverso il corpo e la straniera la imita con
dedizione ossessiva nel tentativo di essere accolta. Il lenzuolo che copre il
corpo dell’estranea nel sonno (sonno disprezzato, perché toglie tempo alla
vigilanza) mira a seppellire ogni sua traccia non meno dell’elusione delle
domande fondamentali (“Voi non siete come noi” “Noi chi?”. “Siamo in guerra con voi” “Voi chi?”). Un
ruolo va in pezzi tuttavia proprio dove si pretende che non sia scalfito. Per
non destare sospetti, la nuova venuta è presentata come la sorella delle
abitanti della casa e nella menzogna c’è la verità; sono infatti unite dalla
prigionia, l’una dello sradicamento, le altre del pregiudizio. La descrizione
dapprima fredda e poi accorata delle balene, animali liberi che hanno in se
stessi, non in un codice, la ragione di esistere, è una presa d’atto
dell’inutile pretesa di definire, incasellare, confinare in un ambito, tanto
che una delle interpreti si lascerà tutto alle spalle. Le scarpe che cadono in
terra al momento di abbandonare l’abitazione richiamano alla mente coloro che
sono morti,ma anche le infinite strade che sarebbe stato possibile percorrere
lontano da ciò che disumanizza. Le grandi scale in scena da cui osservare lo
spostamento dei cetacei preannunciano l’urgenza di superare le percezioni
annichilite dall’insofferenza. Su una di esse si arrampicherà “l’intrusa”, per
volgere al mare che l’ha risparmiata lo sguardo di chi comprende che ascoltare
i sensi e le emozioni è il primo passo per trovare in se stessi la propria
casa.
Com’è
difficile essere all’altezza di ciò che non ci somiglia. Ancor più difficile
però è mettere a tacere la propria anima. Tre donne (in realtà quattro con
l’anziana Naomi, interpretata all’unisono dalle tre attrici perché può
incarnare l’esito dei percorsi precedenti) si misurano con quello che la vita
pretende da loro in “Fragile” di Arnold Wesker, che Licia Amarante e Antonella
Valitutti hanno diretto presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. I ruoli
richiesti all’altra metà del cielo sono spesso scomodi: la donna amorevole e
premurosa che non vede oltre una serie di riti formali e che non a caso appare
di spalle all’inizio dello spettacolo, dato che la forma può tranquillamente
fare a meno dell’essenza (Stephanie, che Marika Mancini crea con appassionata
dedizione), la madre che deve combattere con i malumori della figlia (Ruth, che
ha il volto dell’ironica e tenera Bernadette Landi), la scrittrice chiamata a
giustificare il suo successo (Annabelle, tratteggiata con acuto disincanto da
Rosita Speciale). Nulla è tuttavia più debole delle maschere e ciò che è stato
attentamente nascosto riemerge. L’abbandono del marito, attratto da un’altra,
spinge Stephanie a comprendere di non averlo mai amato, divenendo di fatto
estranea a se stessa per la forza dell’abitudine. La divina monella, come Ruth
chiama sua figlia (Carlotta Costantino che appare con la leggerezza del sogno,
perché tale è ogni ragazza per chi la genera), induce la donna a prendere atto
del suo bisogno d’amore dietro l’ostentata indipendenza da ogni uomo. Annabelle
deve rispondere per due volte alla stessa intervista attraverso la voce fuori
campo di Antonella Valitutti: conoscere davvero è impegnativo ed è meglio
restare nel solco dell’assodato. Se però in un primo momento l’autrice
manifesta il suo approccio viscerale alla scrittura, come se fosse dominata dai
suoi personaggi, in seguito si dice interessata esclusivamente alla fama e al
potere. La cecità di un mondo incapace di comprendere è denunciata dal suo
cinismo. Le protagoniste hanno tutte perso qualcosa, ma non la capacità di
sentirsi vive, di ascoltarsi, di cogliere ciò che altri non vedono. La vecchia
Naomi, a cui resta soltanto la telefonata di un nipote a farle compagnia, fa bene
a ridere del principe azzurro: è l’idea che un miraggio possa colmare un vuoto
a essere davvero fragile.
Molto più di un
laboratorio:un’esperienza di
condivisione che sia totale messa in gioco. Inizia oggi presso la Chiesa di
Sant’Apollonia e terminerà il 7 gennaio “Itaca/La
bottega dei ritorni”, una piccola residenza artistica che riunirà
operativamente alcuni attori di Salerno e provincia, i quali prenderanno parte
al laboratorio di Nerval Teatro “La Germania che
ho in testa” a cura di Maurizio Lupinelli.
L’iniziativa è il primo passo di Mutaverso, la stagione teatrale, giunta alla
seconda edizione, che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico.I venti interpreti coinvolti si misureranno
con un testo di Fassbinder, “Sangue sul collo del gatto”, pièce del 1971 che
non perde a distanza di anni la propria capacità di incendiare il concetto
stesso di confine e di regola. La protagonista, Phoebe
Zeitgeist, è un’aliena che vuole studiare il linguaggio degli uomini, ma nulla
è più ingannevole della comunicazione e la tendenza della strana ospite a ripetere
meccanicamente e all’apparenza senza senso parole e frasi porterà alla luce
contraddizioni e assurdità del comportamento umano. L’ex femminista fallita, il
piccolo borghese, la modella in grave regressione, l’omosessuale emancipato,
per citare solo alcuni dei personaggi, confluiranno in un contesto che saprà
fare a pezzi ogni rimozione. L’opera va tuttavia considerata un canovaccio che
porti alla luce la specificità dei singoli percorsi degli attori, così che la
comune esperienza possa dare frutti al di là di ogni intento programmatico.
Sono previsti un piccolo gruppo di uditori, un diario di bordo a cura di “Scene
contemporanee”, partner dell’iniziativa come Puracultura, e un docufilm che
testimoni il percorso svolto.“Quello di
Itaca non pretende di essere un censimento esaustivo delle risorse artistiche
legate all’ambito di Salerno e provincia- ricorda Albano- né tantomeno si
intende fare riferimento alla retorica del nemo propheta in patria. Maurizio
Lupinelli è un capofamiglia ideale che sa creare un gruppo in un ambito che
vuole dare vita a relazioni al di là di ogni frammentarietà. Ecco perché il
pubblico può assistere a ogni fase di questo itinerario e il 7 gennaio sarà un
momento di restituzione alla platea di quanto compiuto. Credo alle affinità,
non alla rete. Il dialogo tra individui diversi, sia pur accomunati dalla
provenienza geografica, è il punto di partenza di una costruttiva relazione con
la scena e ciò che la circonda”.