mercoledì 16 luglio 2025

Falivene e Borrelli, un Godot circense

 Squadernarsi di prospettive, ampliamento delle possibilità: l’attesa può essere fertile 

o, secondo Beckett, inchiodare alle irrisolvibili incongruenze della condizione umana. La terza via è quella proposta da Adriano Falivene e Davide Borrelli in “Aspettando Totò”, accolto con favore dal pubblico della trentottesima edizione del Barbuti Festival. Liberamente ispirato ad “Aspettando Godot”, l’allestimento vede i due interpreti nei panni di Gnegno e Kefir, improbabili e vivaci guitti che si preparano alla venuta di un importante produttore, Totò, appunto, intenzionato (ma come fidarsi delle apparenze?) a finanziare un loro spettacolo. Dal momento che un vero artista non può certo oziare, ma deve essere costantemente all’altezza delle ghiotte opportunità vere o presunte, i due provano i loro strampalati copioni, tuffandosi in mezzo al pubblico e rapendo tre spettatori, di cui uno diventa la controfigura dell’agognato interlocutore, ma anche un lupo minaccioso e gli altri si ritrovano nei panni di Piramo e Tisbe, offrendo supporto ad acrobazie di ogni tipo. A una signora in platea si chiede di leggere il messaggio di Totò, un biglietto ironicamente racchiuso in una busta gigantesca, proporzionata al desiderio di combinare l’affare e consegnata, in precedenza, da un diavolaccio messo in fuga da una bottiglia di alcol (lo spirito santo).  In equilibrio su grandi sfere, sui trampoli o su un monociclo, tra maschere, parrucche che non calzano e immaginarie blatte da sterminare col borotalco, gli attori rendono predominante la dimensione circense, celebrando l’inventiva e la spudoratezza di chi si esibisce da sempre ovunque, senza preoccuparsi di vincoli o convenzioni. Non c’è traccia dell’implacabile attitudine di Beckett a scarnificare ogni tipo di riferimento o del problematico legame tra Pozzo e Lucky. L’incapacità di comunicare e comprendere è presente in una breve citazione tratta dal pirandelliano “Uno nessuno e centomila” e, nella conclusione, ripetere le stesse parole scambiate nella prima scena ricorda come non si possa fuggire dall’assurdo. Falivene e Borrelli prendono, dunque, le mosse dalle suggestioni del testo per rendere omaggio alla tenace multiformità di chi abita il palcoscenico, esaltando energicamente l’essenza di ogni performance : dominare lo sguardo e mutarlo in azione, in gioco, in evasione dal quotidiano. Non è allora un caso che Gnegno e Kefir immaginino di avere il mare davanti a sé da cui pescare i propri complici: chi recita può essere approdo o barca pronta a immergersi nel divenire.

“Iliade”, il gioco senza fine tra umano e divino

 


Una voce nel buio chiede alla Terra, madre di ogni cosa, e al cerchio del Sole, che tutto vede, di guardare allo strazio provato da un dio. Deve, in effetti, essere gravoso non conoscere più i confini della propria grandezza, soprattutto se quella stessa possanza suscita il sorriso e non certo la venerazione. Affascinante equilibrio tra sarcasmo e dolore, tra leggerezza e profondità. “Iliade- Il gioco degli dei” ha ottenuto un ampio successo presso il Teatro Verdi di Salerno. La drammaturgia di Roberto Aldorasi, Francesco Niccolini, Marcello Prayer e Alessio Boni (qui nelle vesti di un memorabile Zeus accanto alla convincente Antonella Attili, che impersona Era) prende corpo sul testo di Francesco Niccolini, liberamente ispirato al capolavoro omerico. Il cast, che comprende Haroun Fall, Jun Ichikawa, Liliana Massari, Francesco Meoni, Elena Nico, Marcello Prayer, domina il palco impedendo anche il minimo calo dell’attenzione. Libertà e costrizione, desiderio e capriccio del fato sono i due estremi tra cui si snoda una riflessione sul limite saggiamente antiretorica. Gli dei che si ritrovano su una spiaggia sembrano aver dimenticato ogni sacralità. Sotto gli occhi di Teti, severa e cupa, ma comunque apostrofata come ninfetta sottomarina, il signore dell’Olimpo è smemorato e irascibile, Ares, che dovrebbe incutere vivo terrore, è trattato al pari dello scemo del villaggio, Atena è etichettata come “fuori di testa”, Afrodite è troppo autocompiaciuta per nutrire dubbi su di sé, Ermes ama l’imprevedibilità, Era fa fatica a sopportare le intemperanze del marito e dei suoi numerosi figli, Apollo si ritrova nei versi di Rilke, ma, per quanto si abbandonino al sirtaki (perché divino è il ritmo del mondo), su tutti incombe la stessa domanda: quando è cominciata la caduta? Quando le creature immortali hanno iniziato a confrontarsi con la perdita di senso? Per comprenderlo, devono tornare alla storia che ha generato tutte le altre: la guerra di Troia. Ecco allora che gli dei, manovrando creature e oggetti di scena di Alberto Favretto, Marta Montevecchi e Raquel Silva, impersonano i protagonisti del poema, esprimendo l’intreccio tra umano e divino narrato da Omero e la fertile simbiosi tra gli opposti: ciò che è immortale e ciò che è fragile vibrano all’unisono, l’uno insegue l’altro senza sosta, perché quel che è destinato alla morte sogna di lasciare una memoria perenne e chi si muove al di fuori del tempo e dello spazio si nutre del richiamo dell’effimero. Scene emblematiche sono, per esempio, il connubio fisico tra Paride ed Elena (umiliata dalla dea poco prima, ma comunque strumento della sua volontà) che avviene carezzando il corpo di Afrodite o l’attento sguardo dei celesti dinanzi alla lotta tra Ettore e Achille combattuta al buio, perché l’ira annebbia la mente, e il principe troiano domatore di cavalli non può che giungere dalla platea, visto che l’ego del Pelide sembra abitare l’intero palco. Di conseguenza, le divinità possono apparire quanto vogliono da ponti sollevabili, rigorosamente posizionati in alto a ricordare la loro superiorità: il cielo non sa fare a meno degli esseri umani, di quella loro fragilità che sfida l’Ade, tanto che Apollo afferma “Quei fatti non furono mai ma furono sempre”. Ogni dettaglio della regia di Boni, Aldorasi e Prayer fa sì che scarnificazione del mito e consapevolezza di quanto pesino le illusioni della vita si bilancino. Il cerchio rosso, che sovrasta la scena e che fa pensare a un’eclisse, ricorda come fine e inizio combacino. I vani tentativi di Zeus di accendere il braciere all’inizio dello spettacolo o i suoi fulmini, che non vanno a segno come vorrebbe, denotano l’incapacità di portare luce nel buio dell’insensatezza. La rapidità fulminea con cui Era piega strategicamente il marito alle sue voglie deride la preponderante sessualità maschile, ma anche la possibilità di creare nuove vite e, quindi, nuovi approcci alla conoscenza in piena armonia tra visibile e invisibile. Quando Achille osserva Priamo, che lo scongiura in lacrime di restituirgli il cadavere di Ettore, si trova sulla scala collegata al ponte da cui appaiono gli altri esseri divini, perché le proprie origini lo spingono a sentirsi, ma invano, vicino a loro. Nelle ultime battute, ecco la risposta tanto attesa: l’orrendo massacro della città, occupata con l’inganno dai Greci, segna la frattura tra umano e divino, perché la guerra è un vicolo cieco. Gli esseri supremi hanno mai davvero dominato gli uomini? O piuttosto ne rappresentano lo specchio? Chi ha creato l’altro a propria immagine e somiglianza? Sciogliere l’enigma, tuttavia, è vano quanto credersi vittoriosi dinanzi alla Moira o pretendere di sfuggirle. Si comprende, allora, come non esista differenza tra chi abita la Terra e chi vuol dominarla dall’alto. L’eternità e la morte coincidono, si ritrovano a osservare entrambe il deserto a cui può condurre il cuore nero degli uomini, in attesa, forse, che un nuovo Omero torni a cantare, che il grande gioco ricominci. 

 

“L’anatra all’arancia”, croce e delizia del tradimento

 


Si può essere un “bugiardo cronico”, sempre pronto a rincorrere qualche gonnella e compiaciuto del controllo sul proprio menage, per poi essere tramortito da una notizia clamorosa: un “Apollo”, per di più aristocratico e facoltoso, sta per portare con sé verso una nuova vita i figli e la consorte, stanca per le continue infedeltà. Che contromisura adottare per scongiurare il disastro matrimoniale? Accolto molto calorosamente dal pubblico del Teatro Verdi di Salerno, “L’anatra all’arancia”, basato sul testo di William Douglas Home e di Marc Gilbert Sauvajon per la regia di Claudio Greg Gregori, deve il proprio successo a un frizzante connubio di attori, perfettamente consapevoli su come si orchestri un ritmo capace di coinvolgere lo spettatore. Emilio Solfrizzi (Gilberto) è il perno attorno a cui ruotano le situazioni, carismatico padrone della scena dalla prima all’ultima battuta, che restituisce freschezza anche a espedienti consumati, come il dilatare il dialogo attraverso il fraintendimento di un vocabolo, una mimica buffa e, talvolta, ironicamente pretestuosa, un sistematico disorientamento dell’interlocutore. Carlotta Natoli sa rendersi del tutto credibile nella sua fragilità sospesa tra candore e sarcasmo, mentre Ruben Rigillo (Leopoldo Augusto) dimostra acuto senso della misura nel contrapporre la propria galante ragionevolezza agli eccessi del rivale. Nei panni di Patty Pat, l’avvenente segretaria del marito tradito, Beatrice Schiaffino crea una perfetta oca felice di conquistare gli uomini, ma capace di insospettabile saggezza e Antonella Piccolo, che impersona la domestica Teresa e sembra riecheggiare lo stile di Tina Pica, è una burbera benefica difficile da dimenticare. La regia, supportata dalle scene di Fabiana Di Marco, dai costumi di Alessandra Benaduce e dal disegno luci di Massimo Gresia, sceglie la prevedibilità. Gilberto è un campione degli scacchi e pezzi di tale gioco contribuiscono all’arredamento del salone in cui si svolge l’azione, sottolineando come l’astuzia sia fondamentale nel piano del protagonista. Assume, quindi, un valore metaforico il sacrificio della regina nella partita tra i due personaggi principali che apre lo spettacolo: lui dovrà spingere lei a perdere qualcosa di importante, cioè la propria credibilità di moglie, perché il legame creduto morto possa rifiorire. Una volta scoperta non solo la tresca, ma anche che Lisa e l’amante sono in procinto di partire per Parigi, il marito la convince a ospitare nel weekend Leopoldo, concedendo un divorzio in cui possa accollarsi ogni colpa. Quando, infatti, la domestica scoprirà Gilberto nel letto di Patty Pat, invitata a sua volta, la scelta di Lisa di abbandonare il tetto coniugale risulterà più che legittima. La “generosità” dell’uomo è ovviamente un inganno: si finge accogliente e giulivo con il proprio antagonista, ma, appena gli si presenta l’occasione, descrive la moglie come una squilibrata, anticipa al conte gli infiniti disagi che avrà se accoglie i due figli della coppia, dato che il maschio si dedica ossessivamente alla batteria, riesce a incrinare il rapporto tra Lisa e il suo nuovo compagno. La gelosia di lei nel constatare che Gilberto non ha semplicemente finto, ma ha effettivamente vissuto una notte di sesso con la segretaria, dà il colpo di grazia al progetto di ricominciare coltivato dai due amanti. È a questo punto che la spregiudicatezza di Patty Pat pone le circostanze sotto una luce diversa: non esiste, in fondo, una grande differenza tra lei e Leopoldo. Quest’ultimo, che ha comunque tre matrimoni falliti alle spalle, pretende di dare stabilità a ciò che la ragazza vive con il massimo disimpegno, cioè il desiderio di avere qualcuno per sé, ben prima e oltre l’antico inganno chiamato amore. La sensualità, insomma, ha le sue ragioni e non riconoscerle è dannoso e sciocco. La bella giovane, quindi, avrà pure la cultura di un cactus (predilige “Natale a Cortina”, su cui si scatena l’ironia del suo capo, che la lascia ai “tortuosi meandri artistici della pellicola”), ma certo non perde di vista l’essenziale. Il coniuge, dal canto suo, non va per il sottile: se Lisa resta con il nobile gentiluomo, “più noioso di tutti i film di Antonioni messi insieme”, morirà di noia e dopo un anno avrà la stessa freschezza di un quadrifoglio conservato in un libro. I due, di conseguenza, si ritrovano felicemente. La sensazione è quella di assistere a una messinscena piacevole, che però non gioca fino in fondo le carte di una sana cattiveria. Ricorrere alla simulazione di un orgasmo o a inequivocabili movimenti pelvici per ricordare quanto il sesso conti resta la scelta di chi è sprovvisto di fantasia. Se è vero che la commedia propone un’infinità di strade per raggiungere il proprio bersaglio, non sempre la più facile conduce lontano. Dare scacco al pubblico, conquistandolo fino in fondo al di fuori di soluzioni espressive ricorrenti e non sempre efficaci richiede coraggio ed estro. In caso contrario, il grigiore rimproverato a Leopoldo si ripresenterà, tenace e scomodo.