Squadernarsi di prospettive, ampliamento delle possibilità: l’attesa può essere fertile
o, secondo Beckett, inchiodare alle irrisolvibili incongruenze della condizione umana. La terza via è quella proposta da Adriano Falivene e Davide Borrelli in “Aspettando Totò”, accolto con favore dal pubblico della trentottesima edizione del Barbuti Festival. Liberamente ispirato ad “Aspettando Godot”, l’allestimento vede i due interpreti nei panni di Gnegno e Kefir, improbabili e vivaci guitti che si preparano alla venuta di un importante produttore, Totò, appunto, intenzionato (ma come fidarsi delle apparenze?) a finanziare un loro spettacolo. Dal momento che un vero artista non può certo oziare, ma deve essere costantemente all’altezza delle ghiotte opportunità vere o presunte, i due provano i loro strampalati copioni, tuffandosi in mezzo al pubblico e rapendo tre spettatori, di cui uno diventa la controfigura dell’agognato interlocutore, ma anche un lupo minaccioso e gli altri si ritrovano nei panni di Piramo e Tisbe, offrendo supporto ad acrobazie di ogni tipo. A una signora in platea si chiede di leggere il messaggio di Totò, un biglietto ironicamente racchiuso in una busta gigantesca, proporzionata al desiderio di combinare l’affare e consegnata, in precedenza, da un diavolaccio messo in fuga da una bottiglia di alcol (lo spirito santo). In equilibrio su grandi sfere, sui trampoli o su un monociclo, tra maschere, parrucche che non calzano e immaginarie blatte da sterminare col borotalco, gli attori rendono predominante la dimensione circense, celebrando l’inventiva e la spudoratezza di chi si esibisce da sempre ovunque, senza preoccuparsi di vincoli o convenzioni. Non c’è traccia dell’implacabile attitudine di Beckett a scarnificare ogni tipo di riferimento o del problematico legame tra Pozzo e Lucky. L’incapacità di comunicare e comprendere è presente in una breve citazione tratta dal pirandelliano “Uno nessuno e centomila” e, nella conclusione, ripetere le stesse parole scambiate nella prima scena ricorda come non si possa fuggire dall’assurdo. Falivene e Borrelli prendono, dunque, le mosse dalle suggestioni del testo per rendere omaggio alla tenace multiformità di chi abita il palcoscenico, esaltando energicamente l’essenza di ogni performance : dominare lo sguardo e mutarlo in azione, in gioco, in evasione dal quotidiano. Non è allora un caso che Gnegno e Kefir immaginino di avere il mare davanti a sé da cui pescare i propri complici: chi recita può essere approdo o barca pronta a immergersi nel divenire.
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