mercoledì 10 aprile 2013

Artaud, la carne e l’anima

Identificare il Figlio di Dio e Artaud? Scelta necessaria più che blasfema. In entrambe le figure il verbo si fa carne. Mentre però nel primo quest’ultima diviene fragile tramite per approdare al regno dello spirito, nel secondo il corpo diviene il centro di tutto, momento rivelatore della menzogna della lingua, troppo propensa a chiudersi in gabbie da lei stessa costruite. Su questo assunto si basa “Iosonogesucristo. Da, per e con Antonin Artaud” (come a dire: per Cristo, con Cristo e in Cristo), lo spettacolo del Golem Teatro diretto da Giovanni Granatina e interpretato da Francesca Iovine e Dimitri Tetta in programma il 12 aprile alle 20.30 alla Domus Ars di Napoli nell’ambito del Festival Diecilune.
Sulla scena compaiono fogli sparsi ovunque, una sedia rossa rovesciata, un uomo che sembra essere precipitato sul palco da chissà dove. Tutto è duplice nella messinscena in omaggio alla libertà critica dell’artista. Il disordine è la conseguenza della permanenza nei sanatori e la confusione del reale che legittima leggi e comandamenti. Il ceppo su cui l’uomo batte il martello ricorda l’attenzione al ritmo dell’autore del “Teatro della crudeltà”, ma rimanda anche alla visione monolitica di chi non tollera pensieri alternativi. I fogli riuniti e poi sparsi sono sì le opere di Artaud, ma anche i frammenti di un mondo che solo nell’azione scenica può ritrovare unità e senso, come la sedia allude a un potere calato dall’alto che va abbattuto. La donna che, in preda a spasimi su una sedia a rotelle, accusa l’uomo di non essere il regista e scrittore è Paule Thévenin, che lo conobbe e sostenne. Non basta rievocare, bisogna rivivere, come lei sta vivendo nella sua pelle i tormenti del suo idolo. La duplicità ritorna nel momento in cui i due si scoprono incarnazioni e testimoni di colui che ha cambiato per sempre l’arte teatrale. Si rivive il suo insegnamento come nella celebrazione di una messa: l’invito a cercare in se stessi e non nelle scuole la ragione per recitare, l’inseguimento continuo dell’essenza delle cose («A me non piacciono i baci, ciò che mi piace è il gusto dei baci nei baci») e che il protagonista vuole riconsegnare a se stessa, seguendo con un gessetto i contorni degli oggetti in scena. In una transustanziazione laica si mutano l’una nell’altro: lui diviene il corpo malato e lei la sua amorosa custode. Il teatro va agito, deve essere percepito fin dentro le ossa, e richiede un sacrificio da cui si risorge a nuova vita. Sembra che le parole di Antigone risuonino solo per Artaud: mi dicono folle, ma forse è folle chi di follia mi accusa.

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