mercoledì 24 aprile 2013

Crudeltà e desiderio nel Rigoletto di Lorenzo Amato



All’alzarsi del sipario lo si vede affranto sul seggio del suo padrone nella solitudine più completa, per poi lasciare subito il campo alla festa lasciva che gli chiederà la sua maschera più grottesca e feroce. Le qualità interpretative di Leo Nucci, che rende scomodamente credibile in ogni gesto il suo Rigoletto, sono la punta di diamante della messinscena del capolavoro verdiano diretta da Lorenzo Amato applaudito al Massimo di Salerno. Il regista si affida a un cromatismo aggressivo per narrare una vicenda di violenze, inganni e aspirazioni calpestate: il nero dell’abuso, della mancanza di coscienza, il rosso, declinato in tutte le sfumature possibili, della carnalità e della passione, su cui spicca il bianco innocente della figlia di Monterone, che si aggira tra gli invitati del Duca di Mantova smarrita e sola non meno del buffone né meno vittima di lui -che pure, da servo coscienzioso, la insulta- di un contesto preoccupato solo di soddisfare ciò che vuole. La scena iniziale in cui i convitati si abbandonano in una sorta di orgia ai propri istinti non è infatti gratuita, ma oggettiva in tutto ciò che lo circonda l’animo del Duca, che concepisce l’esistenza come appagamento, senza tenere conto del prezzo che la conquista comporti. L’ampia scalinata della dimora ducale allude a una visione implacabile delle cose, per cui chi si trova (o si illude di essere) in alto è quasi naturalmente portato a schiacciare chi è in basso. La dimora a due piani di Rigoletto è leggibile a sua volta in senso simbolico: la donna che veglia dall’alto la figlia del protagonista è anche quella che aprirà la strada alla rovina, a dimostrazione di come i personaggi principali subiscano un destino che li sovrasta. L’opera fa emergere una concezione distorta dell’atto del desiderare. Senza poter manifestare liberamente la propria essenza, Rigoletto asseconda e subisce il volere del nobile, quest’ultimo sacrifica al suo egoismo le brame altrui, Gilda sceglie la morte in nome di quell’amore che avrebbe dovuto darle nuova vita. Desiderio e crudeltà sono i due poli tra cui oscilla la vita del buffone, lacerato dallo struggimento di non poter difendere quell’umanità che lo ingentilisce e che si concretizza nell’affetto esclusivo per la figlia. Alla dialettica alto/basso fa da contraltare quella giocata sull’interno e l’esterno. I sentimenti più elevati sono confinati in spazi chiusi, la sopraffazione si attua all’aperto o in luoghi che abbiano una “consacrazione ufficiale” (il salone del Duca). Con Gilda muore la possibilità di uscire da quell’incubo buio che è il mondo dei potenti.

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