Il mostro troppo umano di Antonio Grimaldi
Il bianco è il colore dell’attesa, del
silenzio, della solitudine. È naturale che il regista e attore Antonio Grimaldi
(nella foto di Enrico Coppola) l’abbia scelto in “Studio di un mostro”, la sua
personalissima rivisitazione del “Frankenstein” di Mary Shelley, probabilmente
il personaggio più solo dell’intera letteratura. Applaudito presso il Complesso
di Santa Sofia di Salerno nell’ambito della manifestazione R-Esistenze e forte
del contributo di Cristina Milito Pagliara come assistente alla regia, lo spettacolo
attua un lavoro di sottrazione che rende totalizzante il mondo interiore del
mostro tradito nella sua essenza. Avrebbe dovuto essere la vetta
dell’evoluzione umana, ma si ritrova ad avere il cervello e il cuore di un uomo morto senza che gli sia
perdonata la sua diversità. La morte non può celebrare la vita, ma può
inseguirne l’essenza, che è il desiderio. La performance di Grimaldi è un
conflitto tra una condizione immutabile (a cui il bianco allude) e la febbre di
sapersi corpo dotato di anima, tanto umano da non trovare spazio tra gli
uomini. La creatura avanza a fatica trascinando una veste anch’essa bianca (si
muove su supporti che elevano la statura e conferiscono l’andatura meccanica
dell’organismo artificiale) e solo in un secondo momento l’abito rivela una
grande macchia d sangue. Appartiene alla vittima, ma è anche il sogno
dell’assassino: vuole che il sangue pulsi nelle sue vene, vuole conoscere fino
in fondo, a qualunque costo, il sapore della passione. Pur sapendo di non
essere compreso, si rivolge al suo creatore con un microfono: le sue parole
devono riecheggiare con più forza nel nulla dove gli altri lo hanno relegato.
Il protagonista sperimenta la dolente ebbrezza di Prometeo nel far emergere da
mucchi di terra gli arti di un manichino femminile faticosamente assemblato. In
fondo l’amore è questo: costruire ciò che crediamo ci appaghi e nello sguardo
della creatura diventa indistinguibile la trepidazione del padre e la
sensualità dell’amante. Urlare alla propria creazione “Vivi!!!” non basta: il
mostro avverte che è l’inganno la condizione umana. I sogni naufragano con la
stessa rapidità con cui fanno innamorare. Trova un flauto, prova a suonarlo e
capisce che non potrà mai essere come quell’oggetto: strumento di chi pretenda
di controllare le sue emozioni. E mentre il buio si richiude su di lui, nel suo
sguardo teso e intenso la felicità resta un ostinato miraggio.
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