venerdì 30 gennaio 2015

“Vietato porno amen”, la carne e il buio



Ogni verità risiede nella carne. L’epicentro di ogni conoscenza è lì, dove crollano alibi e menzogne e il rimosso è pronto a esplodere. La carne restituisce l’uomo a se stesso anche a costo di precipitarlo nel peggiore degli incubi. In una serata che vedrà gli interventi di Alfonso Amendola, Elio Goka e Davide Speranza, con “Vietato porno amen”, diretto e interpretato da Antonio Grimaldi e dalla Compagnia Teatro Grimaldello, in programma alle 20.30 di stasera presso il Teatro Diana di Nocera Inferiore, non si assiste solo a una messinscena tratta liberamente da “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, ma anche e soprattutto a una cristologia rovesciata che non approda a nessun cielo. Ripiomba sulla terra con la stessa violenza con cui Grimaldi si accascia al suolo dopo essersi colpito. L’appuntamento rientra nell’ambito della rassegna Di Segnato Tempo, che si avvale del sostegno del Comune di Nocera Inferiore e dell’associazione culturale Noceracconta. L’amore per il più scomodo intellettuale che l’Italia possa vantare viene da lontano. Già “In nome del padre” era stato reso omaggio a quel lancinante amore per l’esistenza e per una consapevolezza non allineata che aveva caratterizzato Pasolini a dispetto della morte crudele che lo aveva rapito e di tutti i tentativi di distorcere il significato del suo percorso. Il regista appare nudo sullo sfondo del deserto (omaggio al celebrato “Teorema”) per poi offrirsi come una sorta di vittima sacrificale a pulsioni segrete: quelle che spingono a schiacciare, a reprimere, in un orgiastico bisogno di autoaffermazione. Il suo corpo resta disteso sul palco durante l’intera messinscena, perchè ciò che è scritto nella pelle non si cancella, mentre gli interpreti, vittime e carnefici, sono prigionieri dell’ossessivo rituale della sopraffazione. L’atmosfera di Salò rivive nella sua crudezza. Sotto fasci di luce rosso sangue, mentre campeggia l’immagine del Giudizio Universale, i corpi diventano nient’altro che cose da esibire e calpestare in un asfittico delirio di onnipotenza. Guardare nell’abisso è l’unico modo per non esserne risucchiati e se l’antico binomio pathos /matos, dolore/conoscenza si rinnova di continuo, la sofferenza muta della donna in nero dinanzi all’uomo abbandonato al suolo (una donna araba, una madre, il simbolo di qualcosa di irraggiungibile) chiude in un fermo-immagine il bisogno della carne di essere vita e non sepolcro. 

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