lunedì 7 dicembre 2015

“Notturno di donna con ospiti”, un incubo tra quattro mura



Non bisognerebbe mai restare da soli. È allora che i fantasmi si prendono le loro rivincite, trasformando tutto in in un incubo. Accolta con entusiasmo dal pubblico del Teatro delle Arti di Salerno, Giuliana De Sio ha riproposto la sua memorabile interpretazione in “Notturno di donna con ospiti” di Annibale Ruccello. Enrico Maria Lamanna firma una regia dal ritmo che serra la gola dello spettatore in un’opera che si inserisce coerentemente nel percorso di Ruccello, conoscitore profondo della solitudine e della prigionia psicologica. Clotilde in “Ferdinando” è orgogliosamente ostaggio di un passato ormai disprezzato, il protagonista de “Le cinque rose di Jennifer” attende qualcosa che non avverrà mai, Anna Cappelli nell’omonimo monologo arriva a identificarsi con la casa simbolo di uno status sociale a lungo inseguito. Adriana è a sua volta prigioniera della sua stessa vita, schiava della televisione,  inchiodata anche dalla sua terza gravidanza al matrimonio con un metronotte, Michele (Gino Curcione, che tratteggia con cura un personaggio brutale e arido). che la considera una serva da portare a letto, immobilizzata in un presente di parole ripetute, bambini, gesti consumati dalla routine. Rimasta sola, le piombano in casa Rosanna, una compagna di scuola vittima, a suo dire,  di balordi(Rosaria De Cicco, credibilissima femme fatale priva di scrupoli), il marito Arturo (l’abile Andrea De Venuti) e Sandro,il nuovo compagno di Rosanna che aveva ingravidato Adriana in gioventù (Luigi Iacuzio, sfuggente e crudele). Inizialmente divertita dalla stranezza della situazione, la padrona di casa si troverà al centro di un massacro complicato dal ritorno del marito e dal ricordo del padre morto e della madre (Mimmo Esposito, del tutto a suo agio anche en travesti) fino al tragico esito. Un momento rivelatore è il poker tra gli ospiti: il gioco degli adulti, degli scaltri, di ciò che è totalmente estraneo alla natura di una figura interrotta, spezzata dalle sue vicende. La donna è attorniata dalle sue proiezioni in un sofisticato squilibrio di assonanze e antitesi. Rosanna è ciò che Adriana avrebbe potuto diventare nell’ottica dell’opprimente madre, ovvero una manipolatrice del sesso, ma è anche la libertà sconfinata che le è stata preclusa  e che spesso richiede un prezzo assai alto (l’aggressione, appunto) e dunque oggetto di odio e ammirazione. Michele e Sandro diventano speculari nell’abusare di lei, perchè non ha avuto la forza di sfuggire allo schema della vittima: eloquente la scena in cui i tre uomini, usciti dalla doccia, hanno tutti un asciugamano sul viso, lei ne sceglie uno e scopre attonita che si tratta proprio del suo primo uomo. Al passato non  si sfugge e nell’oscillare tra nuove e antiche ossessioni basta una macchinina rossa (il colore del desiderio, non a caso) per far regredire Adriana allo stadio di bambina. Uno stadio mai superato: l’apparizione del marito o della madre quando si sta abbandonando ai suoi istinti dimostra il senso di colpa tipico di chi non ha saputo o voluto crescere. Arturo inoltre, l’unico che non appartiene al suo concreto vissuto, racchiude in sé gli stereotipi del seduttore da telenovela a lungo vagheggiati in una grigia esistenza. E anche la scelta, all’apparenza stravagante, di far emergere i genitori dal frigo o dallo sportello di un mobile risulta logica: chi sconta l’ostilità altrui non ha che i suoi deliri. L’abito da sposa indossato alla fine della pièce simboleggia quel bisogno di amore e di riconoscibilità che le è stato sistematicamente negato. L’uccisione dei figli nel tentativo di fronteggiare la madre esprime il bisogno lancinante di sottrarsi a tutti quei legami che l’hanno schiacciata (ma la soppressione dei bambini non è molto diversa dalla violenza psicologica di una genitrice che non ha voluto lasciarla essere una persona) e la folle risata mentre, coperta di sangue, si muove sul triciclo, dimostra che il vero orrore è un susseguirsi di giorni di piombo, in cui “le parole ce stanno, ma è cum si nun vulessero ascì”.

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