venerdì 4 dicembre 2015

“Scrivere non è descrivere!”, elogio della libertà al femminile



Quando nel 1976 mimò con il suo corpo la parola Mater, fu scandalo. Nella miope Italia riconoscere il diritto a essere persone non è mai stato semplice. “Mater” è una delle opere di “Scrivere non è descrivere!”, la mostra di Tomaso Binga chiusa con successo presso la Galleria Tiziana di Caro di Napoli in attesa di ospitare nuove produzioni dell’artista. A una concezione a senso unico della femminilità, Binga fa del suo corpo un segno che rifonda totalmente il linguaggio. La madre come fondamento di un mondo cieco dinanzi alle differenze diventa cosi l’occasione per ridurre gli schemi mentali a pura immagine oltre la quale la comunicazione diviene qualcosa di vivo e mai statico. Le lettere dell’”Alfabetiere” ancora forgiate dalla sua nudità invitano a considerare gli elementi della lingua un’opportunità di gioco, una presa di posizione di chi fa arte e si assume la responsabilità di essere totalmente ciò che crea. Anche la riproduzione di illustrazioni tratte da fumetti cinesi (propri dunque di una società basata sulla rigidità delle regole) è un ironico rimando a reinterpretare e arricchire il dato visivo. Lo stadio prelogico della scrittura emerge dal “Dattilocodice”: lettere battute a macchina e sovrapposte come in un arazzo liberano le energie dell’inconscio e ricordano la duttilità del significante. La “Scrittura in dissolvenza”, esposta per la prima volta (un flusso desemantizzato che scompare progressivamente, tracciato su contenitori di medicinali che ricordano finestre aperte su un nuovo orizzonte) non contiene certo un messaggio nichilista nell’azzerare i consueti codici esegetici. È al contrario un’esortazione a sottrarsi alla tirannide di tali codici, perché il fluire incontrollabile del segno sia cifra degli infiniti modi di rapportarsi al reale.  Non poteva mancare in questo contesto “Ti scrivo solo di domenica”. Le lettere disposte lungo le pareti di una sala appaiono specchi in cui l’artista e lo spettatore si osservano:  del resto le parole costruiscono la casa della mente. L’introspezione diventa grimaldello che scardina il reale. Nel riflettere sulle proprie sensazioni e sul bisogno (vitale ma ostacolato) di essere libera, Binga dà voce a tutte le donne alla ricerca della propria identità, che è un eterno dispiegarsi, non un copione dettato da pregiudizi e abitudini stantie. Scrivere non potrà mai essere descrivere, ma cogliere il rimosso, l’assonanza tra ciò che è distante, vitalità anarchica perché, come scrive l’autrice, “Le parole silenziose mi infastidiscono come la forfora”.

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