giovedì 16 marzo 2017

Garwalf o il nichilismo della visione



Avete presente gli ingombranti ed egocentrici anni Ottanta? E quell’inutile propaggine che furono gli anni Novanta? Tranquilli: da allora è cambiato ben poco. Ispirato a quel clima con tanto di ballo sulle note dei Toto, colonna sonora de “Il tempo delle mele” e servizio televisivo di Lilli Gruber ridoppiato all’occorrenza, “Garwalf” con Francesco Turbanti e Marta Vitalini, diretti da Andrea De Magistris e Giovanna Vicari, ha segnato la nuova tappa di Mutaverso, la stagione teatrale che ha in Vincenzo Albano il suo direttore artistico. Utilizzando la tecnica di ripresa del film “The Blair witch project”, ovvero fingere di filmare dal vivo la vicenda con frequenti sguardi in macchina e ricorrendo a siparietti ironici, gli attori modellano il copione su spettatori reclutati il giorno prima, che in una tenda devono smascherare il lupo mannaro nascosto tra loro, sempre pronto a uccidere, a cui è destinato anche un premio in denaro, in omaggio a un protagonismo incondizionato. Si tratta dunque di un progetto basato sul coinvolgimento della platea in cui le citazioni del costume e dell’informazione di oltre trent’anni fa ribadiscono la necessità, vitale al giorno d’oggi, di avere un pubblico a qualunque costo. Il risultato è un percorso in cui lo smascheramento non è che il pretesto per essere al centro di uno schermo, che sia la telecamera o il computer. Da attivatore delle coscienze, il lupo diviene un compagno di gioco, nient’altro che un modo per ricordare che ci si sta muovendo su un palcoscenico. Questa esibizione del corpo si traduce in un nichilismo della visione. Mostrare e mostrarsi, secondo una prospettiva onnivora, ugualmente vorace verso il presente e il passato, ma non preoccupata di riconoscere un senso nell’uno o nell’altro, azzera ciò che pretende di imporsi allo sguardo. La sovraesposizione diviene sudario del visibile, perché lo rende indistinto e sterile. Gli anni Ottanta hanno trionfato. E il lupo che avrebbe potuto restituirci a nuova vita divorandoci non è più consistente della febbre dell’apparire.

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