mercoledì 5 luglio 2017

"La sirena", il richiamo dell'infinito



Solitario. Stravagante. Implacabile nei suoi giudizi e pronto a sputare, letteralmente, sulla pochezza in cui inciampa. Perchè diavolo bisognerebbe perdere tempo con un vecchio così? Perché ha compreso quello che è precluso agli altri. Applaudito con calore nonostante una parte del pubblico di bassa lega, evidentemente allergico a tutto ciò che non sia televisivo, Luca Zingaretti ha proposto una lettura drammatizzata de “La sirena”, tratta da “Lighea”, un racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, all’interno dell’atrio del Duomo di Salerno nell’ambito del Napoli Teatro Festival diretto da Ruggero Cappuccio. Le musiche di Germano Mazzocchetti  eseguite dal fisarmonicista Fabio Ceccarelli hanno scandito con ironica raffinatezza una narrazione in cui dettagli ed emozioni rivivono con una concretezza e un fascino che disorientano.“Detesto di parlare con gente che crede di sapere e invece ignora”, dice nella Torino del 1938 l’anziano senatore Rosario La Ciura, profondissimo conoscitore del mondo greco le cui parole appaiono un “armonioso fluire di orgoglio e insolenza”, al giornalista Paolo Corbera, siciliano a sua volta e pronto a gettarsi con uguale slancio nella passione come nella noia. La Ciura odia la volgarità della superbia e della meschinità in tutte le sue forme, non ultima quella sessuale: le tote, ovvero le fanciulle che fanno girar la testa a Corbera, saranno contaminate dal tempo e dalla morte. Mai potranno reggere il confronto con le statue greche dal misterioso sorriso che il senatore accarezza con lo sguardo. E soprattutto mai nessun piacere,nessun amore potrà essere paragonabile a quello provato con Lighea, la sirena figlia di Calliope apparsa in gioventù a Rosario in una Sicilia fuori dal tempo. La creatura non è solo la quintessenza di una visione che si crede sepolta, ma è la vita stessa, la forza inesauribile dell’essere che si manifesta in tutta la sua spudorata bellezza, il caldo abbraccio a cui tornare stanchi solo sporgendosi sul mare. L’ebbrezza dell’infinito non può che essere desiderata e rimpianta da chi è inchiodato ai suoi limiti e quando giungerà notizia della morte del professore, caduto da una nave in viaggio verso Genova, solo Corbera saprà cosa sia realmente accaduto. Il sogno dell’altrove in cui le catene del quotidiano perdano ogni senso e morte e vita coincidano senza curarsi della logica è stato raccontato da Zingaretti con umile amore per il testo e saggia passione, ondeggiando con cura tra struggimento e sarcasmo, tra dolcezza e dolore. Affidare unicamente alla voce e alle note la performance permette di immergersi nel linguaggio di Tomasi di Lampedusa fino in fondo, assaporandone la carnalità e l’afflato verso qualcosa che non si lascia irretire dagli schemi delle forme e delle convenzioni. L’attore non ha ceduto alla trappola del virtuosismo e ha saputo connotare in modo limpido i protagonisti di questo oscillare tra libertà e confine con immediatezza. È apparso naturale che, concluso lo spettacolo, abbia recitato “Ho sceso dandoti il braccio” di Eugenio Montale. La persistenza dell’amore è il miglior antidoto alla cecità di chi pensa che la realtà sia “quella che si vede”.

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