mercoledì 21 luglio 2021

“Le parolacce di Dante”, viaggio nella lingua con Ovadia e Sanguineti

 

Un turpiloquio accartocciato su se stesso. Una fatale passione per la ridondanza. L'oblio delle proprie possibilità. Come riscattare l'italiano di oggi dal suo grigiore desolante? Tornando al Sommo Poeta, per esempio. Nel presentare, al Largo Barbuti di Salerno, l'opera “Le parolacce di Dante” di Federico Pier Maria Sanguineti, di cui ha curato la prefazione, Moni Ovadia ha ricordato che Carmelo Bene scelse Dante per rispondere alla barbarie avvenuta alla stazione di Bologna e ha evidenziato come i termini volgari abbiano ormai perduto ogni valore urticante.  Quando invece erano propri dei ceti bassi e di chi li cantava, sapevano esprimere una vertiginosa vitalità, ormai estranea a quel “gergo aziendalistico” in cui si è tramutata  la nostra comunicazione. “Nel 1819, il sonetto di Carlo Porta “La ricchezza del vocabolario milanese” illustra trentasei modi di definire un coglione.  Siamo un Paese popolato da coglioni e non abbiamo trentasei modi per definirli”. La pochezza spirituale si riflette oggi nei vocaboli che fingono di racchiudere un contenuto razionale. Ovadia ha infatti citato il Job's Act, espressione che avrebbe dovuto essere sostituita da Labour Pact (dato che job significa impiego e act è atto del sovrano con valore di legge) e che calpesta ciò che dovrebbe disciplinare, ossia i diritti dei lavoratori. Poiché “Noi accettiamo di parlare per non dire niente”, esiste dunque una distanza siderale dalla lingua dantesca, pregnante, ricca di neologismi. Portando ad esempio l’ebraico, che non scrive le vocali prima del I secolo dopo Cristo, mantenendo cosi il suo carattere aperto, l'artista ha rammentato che “Le lingue hanno un'anima sonora”e introducono a infiniti mondi. Un degrado linguistico, quindi, non va mai sottovalutato, perché è chiaro indizio di un degrado sociale. Se poi, come se non bastasse, una società ignora nei fatti il concetto di parità di genere, si affida a una cieca ingiustizia. Sanguineti ha infatti affermato che “Il sistema scolastico è patriarcale e le scrittrici sono interpretate come un fenomeno di moda. Meno dell'1% della proprietà privata mondiale è in mano alle donne. In Francia esiste un centro studi su Cristina da Pizzano, mentre in Italia non esiste ancora nulla di simile” . Mentre a Venezia, in un contesto aristocratico, le donne hanno potere, nella Firenze di Dante, marcatamente borghese, ciò non avviene e la canzone dantesca “Doglia mi reca ne lo core ardire”, esorta a non vendersi alla borghesia, dato che il borghese compra la donna e non è capace di amare. L'autore della Commedia è in netta controtendenza rispetto alla sua epoca. “Mentre San Paolo non permette di insegnare alla donna, Dante crea su di lei un’utopia, rendendola soggetto di cultura: Beatrice infatti corregge San Tommaso e Gregorio Magno. Montanelli avrebbe voluto liberare Dante dal beatriciume: atteggiamento logico in un fascista”. L'autore della Commedia, dunque, non indietreggia dinanzi a scelte ardite, come il suono della z nel primo verso del suo poema:  a dir poco sgradevole, se si pensa che, secondo Marziano Capella, è il suono che produrrebbero i teschi se potessero parlare. E le parolacce? “Nella Bibbia ci sono più puttane che padreterni e la merda predomina nel libro di Tobia -precisa Sanguineti – ma ciò che ha creato scandalo nella Chiesa è la teologia della liberazione che Dante persegue e lo spinge a immaginare, attraverso il Paradiso, ma anche attraverso la figura dell'imperatore, un mondo senza proprietà privata. A eccezione di Adriano V e di San Pietro, d'altra parte, i papi sono tutti all'inferno. Per questo scrittore, l'etica è al di sopra della filosofia”. Chi ignora le potenzialità di una lingua, ignora molte ragioni per vivere.



Nessun commento:

Posta un commento