domenica 7 luglio 2013

Guerra e desiderio in “Attesa” di Antonio Grimaldi



La guerra è mossa contro le anime, non solo contro i corpi, ed è una strada accidentata ricostruire il proprio immaginario. In “Attesa”, lo spettacolo da lui diretto con successo presso il Teatro del Giullare di Salerno, Antonio Grimaldi ha chiesto e ottenuto molto dal suo cast (Annarita Vitolo, Gabriella Orilia, Cristina Milito Pagliaro, Massimo Villani, Luciano Dell’Aglio), affidando quasi esclusivamente al gesto e al movimento di danza la narrazione, per recuperare alla dimensione corporea la sua centralità assoluta. Una donna è costretta ad accettare la partenza per il fronte del suo uomo e a misurarsi con un dolore straniante (l’oltraggio dell’invasore, i nuovi gelidi e beffardi proprietari della sua casa) fino alla faticosa riconciliazione. I testi e la voce fuori campo, che tratteggia atmosfere e desideri, sono di Alfonso Tramontano Guerritore, mentre la drammaturgia di Grimaldi sceglie una linea fortemente evocativa. L’aggressione subita dalla sposa (il bianco del suo vestito è davvero il colore dell’attesa, lo spazio da riempire di pensieri e sensazioni) è simboleggiata da una figura che avanza lentamente in scena con le movenze di un ragno, rovesciata all’indietro, l’unica luce puntata sul suo volto demoniaco (la brutalità abdica a tutto ciò che è umano), che, quasi al rallentatore, getta in terra oggetti e mobili, mentre la donna strofina forsennatamente il suo corpo come se qualcosa di malsano le aggredisse la pelle. La violenza ha molti aspetti: l’aridità dell’infermiera che dovrebbe soccorrerla, la pochezza dei colti borghesi che scacciano una figura angelica, proiezione di un’ansia di pace, la rimozione delle ferite del conflitto attraverso l’apparizione in scena di un cantante. Tutti gli attori indossano le maschere di Angelo Russo e Bonaventura Girodano, non solo per rendere universale la rappresentazione, ma perché la maschera identifica, isola, inchioda, concretizza la tirannia del ruolo che tutti assumono fino a divenire la propria essenza, come mostra il fedele servitore del protagonista che non possiede solo l’immagine, ma anche gli atteggiamenti del cane. Nel congedarsi da ciò che è loro familiare perché nulla può più essere come prima, i protagonisti lasciano il campo a una donna e a un uomo mascherati da suini, pronti forse a essere carne da macello per il prossimo conflitto o semplicemente schiavi delle loro urgenze più immediate. Lui abbandona il capo sulla tavola, come a sognare altri desideri, altre vite, altre attese. 

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