lunedì 30 settembre 2013

“Il sogno dei felici”, storia di vite interrotte



La figura velata, una luna antropomorfa, (il raffinato Luciano Dell'Aglio) accende lentamente le piccole luci sulla scena e i personaggi iniziano ad assumere i propri gesti consueti, pronti a creare per l’ennesima volta a suo beneficio un dramma che li inchioda a una casa che ha “troppe stanze vuote e pensieri vacanti”.  “Il sogno dei felici”, che Antonio Grimaldi ha diretto presso la Chiesa di Sant’Apollonia di Salerno, si basa su di un assunto chiarissimo: la follia è l’unico rifugio di un’anima assetata di letizia e la solitudine che nasce dai sogni spezzati spinge a una lotta tanto violenta quanto inutile. I figli dementi che regalano la propria illogica allegria (Cristina Milito Pagliara e Massimo Villani, in un’interpretazione di profonda intensità) vogliono costruire un petardo che faccia esplodere tutto, esprimendo inconsapevolmente la situazione in cui vivono, dove tutti gli equilibri –ammesso che siano mai esistiti-sono saltati. Badoglio, l’uomo cane che dovrebbe essere una sorta di nume tutelare della casa e che ne riflette invece l’inquietudine irrisolta in un’aggressività che lo rende dolorosamente umano (un Alfonso Tramontano Guerritore attentissimo al suo ruolo e autore dei testi insieme alla generosa Elvira Buonocore, che impersona la madre), nutre un rapporto di amore e odio verso la luna (“Tu sei la corda che attende l’impiccato” le urla), perché non le perdona la sua distanza, il ribadire la segregazione di queste vite interrotte attraverso la sua imperturbabilità. Alessandro Gioia impersona il padre e ogni suo atto racconta con spudorata sincerità il peso di una vita che non ha più la forza di difendere i propri ideali, la madre, che ha il nome antifrastico di Gioia, vorrebbe essere pura e perfetta come la Vergine, perché nessuna felicità può rassegnarsi ad annegare nel nulla. E quando le figure si avventano le une contro le altre, lei si accanisce anche contro se stessa per non aver saputo a sua volta difendere ciò che dava un senso all’esistenza. Eppure neanche la volta celeste può fare a meno di una terra che si macera nel rimpianto e nell’ansia di rinascere. Alla fine dello spettacolo, la luna si accosta al nucleo familiare, come ad attendere a sua volta un motivo per vivere. Del resto, “Chi ci pensa alla solitudine folle di chi sta sempre in cielo?”.

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