venerdì 21 marzo 2014

Out of Bounds, la grande prova di Ciro Esposito in “Rosa Nurzia”



“Che tempi bui, bui, bui” ripete con la comica amarezza della moralista di ferro. Come osano quegli screanzati di poliziotti entrare nella sua casa, che è anche il suo regno? Un’anziana devota non ha il diritto a starsene per proprio conto? “Rosa Nurzia-Pena de l’Alma” è lo spettacolo scritto e interpretato da Ciro Esposito che ha segnato il quinto appuntamento di Out of Bounds, la rassegna a cura dell’Officina Teatrale LAAV di Licia Amarante e Antonella Valitutti presso il Teatro Genovesi di Salerno. Nel suo monologo Esposito crea un personaggio indimenticabile attraverso un minuzioso e appassionato lavoro di immedesimazione. Che sia l’atteggiarsi malfermo delle labbra, le gambe mosse a fatica o lo sguardo consumato da pensieri ostinatamente nascosti, la sua Rosa coinvolge immediatamente per l’autenticità, anche e soprattutto quando gioca con tutte le sfumature del grottesco (irresistibile il balletto a scatti sulle note di “Giovane giovane” o l’esibizione di santini cavati fuori dalla veste e calendari sui papi a testimonianza della fede sua e della sorella). Quella che compare è un’anima arroccata in se stessa  (ma il mondo esterno, anche se raccontato con ironia, non è migliore, percorso com’è da follia e sopraffazione) e la regia di Valentina Carbonara evidenzia questo aspetto attraverso gli oggetti di scena di Monica Costigliola. Sul palco sono disseminati lumini: uno presso la foto in bianco e nero di due donne, un altro presso la statuetta della Vergine, un altro vicino a fiori avvizziti e alle imposte di legno di una finestra (che è però significativamente poggiata in terra, perché la dimensione in cui si muove la donna è quella, orizzontale, della quotidianità). Piegata in avanti come se racchiudesse tra le mani qualcosa di prezioso, si muove incessantemente da un punto all’altro: atteggiamento ripetuto nel finale. Non potrebbe essere diversamente: è la guardiana di un passato che tenta di mantenere in vita con l’ossessione di chi non vuole guardare al di là di quel che ha costruito e perduto. Quella che lo spettatore vede è una veglia funebre in cui i fantasmi, che prendono corpo in un fluire amaro e tenero di parole, sembrano più vivi dei vivi. Chiunque si introduca in questo spazio di memorie da proteggere gelosamente (di cui è immagine il lumino ingabbiato) è un nemico, come mostra la decisione di scacciare la badante polacca e l’ostilità verso i poliziotti a cui è stata costretta ad aprire la porta. Rosa ha custodito il cadavere della sorella Alma per due mesi, perché è impossibile rinunciare a chi è stata amata tanto. Il velo bianco in cui si avvolge (segno tangibile di consacrazione) esprime il bisogno di fondersi con il suo oggetto d’amore. I corpi si consumano e diventano putridi, ma un’anima che si sdoppia ignora la morte: ogni respiro è anche il respiro dell’altra, ogni gesto la cerca e la ricorda. E gli altri saranno pronti a colpirla, ma non a capire che si può amare anche così.

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