mercoledì 19 marzo 2014

Ruggero Cappuccio è Paolo Borsellino



Quando si rivolge a Giovanni Falcone, l’amico con cui ha condiviso tutto, gli dice che sono sempre partiti dalla fine. Per frontegggiare la morte (minaccia, compagna di viaggio, limite che divora lo spazio a ogni respiro) è necessario difendere il proprio tempo che è memoria, ricerca, possibilità. Conclusione e principio possono però fondersi in un ondeggiare continuo. Nello spettacolo che ha conosciuto un successo ininterrotto nel corso degli anni, “Paolo Borsellino Essendo Stato”, Ruggero Cappuccio domina la platea del Teatro Verdi di Salerno con un monologo carico di suggestioni in cui ogni parola ha un peso, perché ogni attimo della vita di un uomo vale la vita stessa. Si parte appunto dalla fine. L’attentato a Via d’Amelio è stato appena consumato, Borsellino è steso su quel che rimane dell’asfalto e sotto le reni sente il pulsare della terra di Sicilia, dove tutte le parole hanno un senso da decifrare e la bellezza è una trappola (distratto dallo splendore della giornata, ha creduto per un momento che la morte fosse lontana ed è stato allora che è caduto). È la bellezza stessa ad andare in pezzi quando si compie un misfatto, come mostra l’immagine di un teatro sventrato all’inizio della rappresentazione. Le istantanee di Lia Pasqualino sono un controcanto muto dove volti di ragazzi, processioni, scorci di palazzi antichi alludono all’innocenza, alla materialità che si fa spirito, al passato che torna ad abitare il presente. L’ossimoro sfida di continuo la logica nella sfuggente Palermo (è alta o bassa questa città? E’ grassa o magra? E’ padre o madre?). L’avvicinarsi e l’allontanarsi dalle foto sono sì l’atto dell’innamorato che non si stacca dal suo oggetto d’amore (il giudice non sa fare a meno di questi luoghi), ma rimanda anche al comportamento di chi indaga e si muove dal particolare al generale per giungere alla verità. I quattro leggii disposti ai lati della scena come punti cardinali esprimono il carattere sacrale del percorso di Borsellino, carne che si fa verbo estraneo alla doppiezza, come mostrano gli stralci del discorso tenuto al Csm nel 1988 sull’insufficienza delle forze a disposizione per la lotta alla mafia. L’ombra di Cappuccio sullo sfondo manifesta una fragilità inaggirabile e il bisogno di lasciare, malgrado tutto, una traccia. Tra dati, ricordi della giovinezza e sogni, la rappresentazione testimonia l’abisso tra lo Stato (apparato non meno pericoloso dei mafiosi nel mercanteggiare l’etica) e lo stato di un uomo che percepisce lo struggente abbandono nel fluire senza sosta delle cose. Nel ventre della Sicilia che, come madre, accoglie il suo corpo martoriato, vita e morte non cessano di parlarsi e il tempo continua a innamorare e ingannare.

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