Ruggero Cappuccio è Paolo Borsellino
Quando
si rivolge a Giovanni Falcone, l’amico con cui ha condiviso tutto, gli dice che
sono sempre partiti dalla fine. Per frontegggiare la morte (minaccia, compagna
di viaggio, limite che divora lo spazio a ogni respiro) è necessario difendere
il proprio tempo che è memoria, ricerca, possibilità. Conclusione e principio
possono però fondersi in un ondeggiare continuo. Nello spettacolo che ha
conosciuto un successo ininterrotto nel corso degli anni, “Paolo Borsellino
Essendo Stato”, Ruggero Cappuccio domina la platea del Teatro Verdi di Salerno
con un monologo carico di suggestioni in cui ogni parola ha un peso, perché
ogni attimo della vita di un uomo vale la vita stessa. Si parte appunto dalla
fine. L’attentato a Via d’Amelio è stato appena consumato, Borsellino è steso
su quel che rimane dell’asfalto e sotto le reni sente il pulsare della terra di
Sicilia, dove tutte le parole hanno un senso da decifrare e la bellezza è una
trappola (distratto dallo splendore della giornata, ha creduto per un momento
che la morte fosse lontana ed è stato allora che è caduto). È la bellezza
stessa ad andare in pezzi quando si compie un misfatto, come mostra l’immagine
di un teatro sventrato all’inizio della rappresentazione. Le istantanee di Lia
Pasqualino sono un controcanto muto dove volti di ragazzi, processioni, scorci
di palazzi antichi alludono all’innocenza, alla materialità che si fa spirito,
al passato che torna ad abitare il presente. L’ossimoro sfida di continuo la
logica nella sfuggente Palermo (è alta o bassa questa città? E’ grassa o magra?
E’ padre o madre?). L’avvicinarsi e l’allontanarsi dalle foto sono sì l’atto
dell’innamorato che non si stacca dal suo oggetto d’amore (il giudice non sa
fare a meno di questi luoghi), ma rimanda anche al comportamento di chi indaga
e si muove dal particolare al generale per giungere alla verità. I quattro
leggii disposti ai lati della scena come punti cardinali esprimono il carattere
sacrale del percorso di Borsellino, carne che si fa verbo estraneo alla
doppiezza, come mostrano gli stralci del discorso tenuto al Csm nel 1988
sull’insufficienza delle forze a disposizione per la lotta alla mafia. L’ombra
di Cappuccio sullo sfondo manifesta una fragilità inaggirabile e il bisogno di
lasciare, malgrado tutto, una traccia. Tra dati, ricordi della giovinezza e
sogni, la rappresentazione testimonia l’abisso tra lo Stato (apparato non meno
pericoloso dei mafiosi nel mercanteggiare l’etica) e lo stato di un uomo che
percepisce lo struggente abbandono nel fluire senza sosta delle cose. Nel
ventre della Sicilia che, come madre, accoglie il suo corpo martoriato, vita e
morte non cessano di parlarsi e il tempo continua a innamorare e ingannare.
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