“Caro Dio”, la sana forza del dubbio
Quanta sicurezza in
una fede incrollabile. Che gioia vivere lontani dal veleno del dubbio. Eppure è
quel veleno a generare una vita che valga la pena di vivere. Basato sul
brillante testo di Giovanna Castellano,“Caro Dio”, per la regia di Angelo
Ruocco, ha raccolto molti applausi al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno.
Se Matteo Amaturo, un sacerdote che risponde alle inquietudini con frasi convenzionali,
interpreta perfettamente l’ottusità del pensiero a senso unico, Cinzia Ugatti è
un’ energica donna alla ricerca della verità, un personaggio che l’attira
perche fonde passione e razionalità e le permette dunque di porre in campo il
meglio della sua energia interpretativa. Sulle note di Fabrizio De Andrè, cantore
del senso del mistero che circonda la fede oltre che degli ultimi, l’ecoscenografia
di Olga Marciano e Geppino Gorga,
interamente realizzata con i rifiuti, si caratterizza per pochi elementi che
alludono a una visione estremamente chiara dei fatti, troppo chiara per non
attirare su di sé delle ombre: un serpente, il gigantesco libro della Bibbia,
il seggio dorato del sacerdote a rappresentarne l’autorità, una mappa del mondo
che sembra ritratto da una mano giovane (perché è sempre giovane la mente che si
interroga). Rivolgendosi direttamente all’Ente supremo, la donna esamina tutto
con una lucidità che non scende mai a compromessi. Dio ci ha creato per amore?
Guai però a manifestare liberamente gli istinti di cui ci ha dotato. Ha voluto
il libero arbitrio? E questo basta a giustificare il male che stritola il
mondo? Il suo è un disegno a favore della vita? E allora perché troppo spesso
percorre la via della morte? Le acrobazie verbali dei “portavoce” (il clero e
tutti i sedicenti cristiani) non bastano a far tacere le inquietudini.
Mescolando ironia e amarezza, dolcezza e audacia, la protagonista smaschera
tutto quel che di inverosimile e assurdo si cela nei testi sacri, mettendo a
nudo la grossolana caparbietà di chi non si spinge oltre il proprio naso. L’intento
della messinscena non è però quello di fare a meno del divino, ma di
recuperarne l’autenticità. Ecco allora che, superando d’un balzo norme, dogmi e
divieti, la narratrice andrà in cerca di Dio nel cuore e negli occhi di chi ama
e di chi soffre. Quando la mente si sbarazza di vincoli e nevrosi, ciò che
appare lontano diviene insospettabilmente vicino. E se anche la ricerca si
rivelasse vana, meglio inseguire un miraggio che nasce da un’esigenza interiore
che farsi schiavi di una volontà basata sulle nevrosi, ma incapace di parlare
all’anima.
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