martedì 22 aprile 2014

“Caro Dio”, la sana forza del dubbio



Quanta sicurezza in una fede incrollabile. Che gioia vivere lontani dal veleno del dubbio. Eppure è quel veleno a generare una vita che valga la pena di vivere. Basato sul brillante testo di Giovanna Castellano,“Caro Dio”, per la regia di Angelo Ruocco, ha raccolto molti applausi al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. Se Matteo Amaturo, un sacerdote che risponde alle inquietudini con frasi convenzionali, interpreta perfettamente l’ottusità del pensiero a senso unico, Cinzia Ugatti è un’ energica donna alla ricerca della verità, un personaggio che l’attira perche fonde passione e razionalità e le permette dunque di porre in campo il meglio della sua energia interpretativa. Sulle note di Fabrizio De Andrè, cantore del senso del mistero che circonda la fede oltre che degli ultimi, l’ecoscenografia di Olga Marciano e Geppino Gorga, interamente realizzata con i rifiuti, si caratterizza per pochi elementi che alludono a una visione estremamente chiara dei fatti, troppo chiara per non attirare su di sé delle ombre: un serpente, il gigantesco libro della Bibbia, il seggio dorato del sacerdote a rappresentarne l’autorità, una mappa del mondo che sembra ritratto da una mano giovane (perché è sempre giovane la mente che si interroga). Rivolgendosi direttamente all’Ente supremo, la donna esamina tutto con una lucidità che non scende mai a compromessi. Dio ci ha creato per amore? Guai però a manifestare liberamente gli istinti di cui ci ha dotato. Ha voluto il libero arbitrio? E questo basta a giustificare il male che stritola il mondo? Il suo è un disegno a favore della vita? E allora perché troppo spesso percorre la via della morte? Le acrobazie verbali dei “portavoce” (il clero e tutti i sedicenti cristiani) non bastano a far tacere le inquietudini. Mescolando ironia e amarezza, dolcezza e audacia, la protagonista smaschera tutto quel che di inverosimile e assurdo si cela nei testi sacri, mettendo a nudo la grossolana caparbietà di chi non si spinge oltre il proprio naso. L’intento della messinscena non è però quello di fare a meno del divino, ma di recuperarne l’autenticità. Ecco allora che, superando d’un balzo norme, dogmi e divieti, la narratrice andrà in cerca di Dio nel cuore e negli occhi di chi ama e di chi soffre. Quando la mente si sbarazza di vincoli e nevrosi, ciò che appare lontano diviene insospettabilmente vicino. E se anche la ricerca si rivelasse vana, meglio inseguire un miraggio che nasce da un’esigenza interiore che farsi schiavi di una volontà basata sulle nevrosi, ma incapace di parlare all’anima.  

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