lunedì 6 ottobre 2014

Umano e virtuale in Luca Trezza



“Santo Mouse, Santo Klaus, Santo Cell, Santo Nick, Santo Auditel…”. Davvero singolare, la preghiera che percorre la vicenda sulla scena. Ancora più singolare, però, è assistere a un’umanità che ha deciso di dissolversi in uno scenario virtuale. Applaudito al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, dove è stato presentato in anteprima nazionale, “Trittico del mio byte” di e con Luca Trezza ha costituito la seconda tappa di “Per voce sola”, la rassegna diretta da Vincenzo Albano che si avvale del sostegno della rivista Puracultura. Il mondo che l’artista salernitano porta in scena è un deserto popolato da fantasmi e da comportamenti stereotipati in cui le pulsioni entrano in rotta di collisione con una solitudine impossibile da scalfire se non nel sogno, nell’allucinazione, nel chiamarsi fuori da uno spazio tanto più claustrofobico quanto più appaia privo di confini. Nel primo monologo, “Abbokkapertaà”, la descrizione della madre cercata con disperata ostinazione è rivelatrice: “Era alta pressappoco così, un cellulare non ce l’aveva, non aveva nemmeno una bacheca”. La donna non ha diritto di cittadinanza in un contesto di riti e gesti all’insegna dell’omologazione; non c’è spazio per chi non sia assimilabile alla rete e ai suoi dettami. La perdita della madre è perdita anche della propria ragione di esistere: quando il protagonista immagina di essere divorato da lei, la carne sta rivendicando la sua supremazia su tutto quello che le è estraneo. E solo un cantico –che con intento metateatrale è l’opera in sé- può annullare distanze, mantenere vive le memorie, recuperare un senso. La necessità di raccontare- attraverso un linguaggio che mescola e stravolge i registri più disparati- tenta sempre di arginare la frammentazione dell’io che si riflette nei gesti inconsulti e violenti di Trezza, un corpo che ha bisogno dell’eccesso, del violento protendersi per ricordare a se stesso di non essere solo qualcosa di catalogabile. In “Neo’.melo’.Diko” le figure proposte sono estremamente tipizzate (la ragazza “facile”, l’impresario senza scrupoli, la nonna affettuosa, il cantante sognatore) perché in una società affascinata dalla sopraffazione non c’è posto per chi ha un sogno da difendere. L’egoismo di chi vuole imporsi non è meno alienante della dipendenza da Internet, che porta a deificare i mezzi tecnologici. La reazione a una tale complessità è leggibile nella scenografia, basata su pochi elementi: il busto di un manichino femminile che compensa invano la mancanza e a cui scattare foto col cellulare che non assicura mai una comunicazione reale, senza filtri, una piccola padella che funge da sterzo o da difesa, pasta da calpestare per mimare il rumore di una finestra che si apre. In “Racconto di fine mese verso le 3e 1\2 della notte” i rumori di un attacco sono presto soppiantati da quelli, non meno disturbanti, della connessione. Il reduce in scena è cieco (ma cieco è quel che lo circonda, perché prigioniero di una coazione a ripetere i propri meccanismi) ed escluso dalla scelta di tutti di essere “sulla schermità”. E il senso di vuoto è così profondo da togliere il respiro.  

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