sabato 28 febbraio 2015

“La gatta sul tetto che scotta”, in scena l’ipocrisia borghese



“Non vivo con te. Condividiamo semplicemente la stessa cella” dice la protagonista a suo marito. Quando Pasolini affermava che la famiglia è un’associazione a delinquere, non era certo lontano dal vero. È lì che si annidano le pulsioni distruttive, i rancori ostinati, gli egoismi che non si lasciano addomesticare. Una dimensione che la scrittura affilata di Tennessee Williams descrive perfettamente ne “La gatta sul tetto che scotta”, che Arturo Cirillo ha diretto con successo presso il Teatro Verdi di Salerno.  Lo spazio della camera da letto che si apre talora sul giardino (ma non esistono concrete aperture verso qualcosa che non sia il legame astioso tra i personaggi) è giocato su un accentuato cromatismo che ricorda Hopper ed esaspera il clima già rovente. Meggy la gatta (una Vittoria Puccini che si illude sull’efficacia incondizionata di una recitazione enfatica) sconta la sua incapacità di rassegnarsi alla finzione di un contesto borghese pervaso da avidità e disprezzo. Le viene infatti rinfacciata la mancanza di figli, l’unico status che sancisca il diritto della donna a esistere, da persone di fatto sterili dal punto di vista dei sentimenti, la cognata Mae e la madre di famiglia (Clio Cipolletta e Franca Penone, attente a ogni sfumatura del proprio ruolo). Non sono migliori il cognato Cooper (Francesco Petruzzelli) o il capofamiglia (il vigoroso Paolo Musio) troppo ossessionato dal controllo dei familiari per comprenderli e consumato da un male oscuro che è chiaro simbolo della divorante ansia di imporsi. Il cameo di Salvatore Caruso nel duplice ruolo del reverendo Tooker e del dottor Baugh rivela a sua volta l’aridità irrimediabile del sistema. Chi non rientra nelle categorie di questo mondo non può che essere irrimediabilmente fuori posto, come Brick, il marito di Meggy (Vinicio Marchioni, credibile nella sua sofferenza scontrosa), in cui la gamba ingessata è chiara allusione a una castrazione del desiderio. Il suo corpo bloccato anche negli approcci con la moglie è immagine di un rimosso che non è riuscito a emergere (il legame con un amico, morto tragicamente, che contava più di quanto si possa spiegare). Come sfuggire a un ambiente così orgogliosamente cieco dinanzi a ciò che non possa fagocitare? Proprio attraverso quel desiderio sconfessato dalla tendenza a vedere negli altri nient’altro che il proprio strumento. Il bimbo che Meggy dichiara di attendere nel finale, dato che i borghesi condividono il solo linguaggio della menzogna, potrebbe non nascere mai, ma mentre lei resta sul bordo del letto e Brick la osserva dalla soglia forse sta vedendo in lei una persona. In quel letto, forse, stanno per incontrarsi delle anime e non solo corpi ingabbiati in un copione che non sono stati liberi di scrivere.

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