mercoledì 4 marzo 2015

"Manca solo la domenica", il prezzo di una maschera



Liboria Serrafalco, detta Borina, non se lo sarebbe preso neanche morto, Cataldo Di Liuzzo “Pilorosso”. Ma poiché nella Sicilia del bel tempo andato il matrimonio è d’uopo, la “canna a stendere” è costretta a convolare a nozze con quel tarchiato “crapulato di eczema” che non ha neppure il buon gusto di lasciarla vedova. Tratto dal testo di Silvana Grasso che mescola esuberanza linguistica e vetriolo, Licia Maglietta ha diretto se stessa in “Manca solo la domenica” presso il Teatro Augusteo di Salerno, accompagnata dalla fisarmonica di Vladimir Denissenkov, che diviene con la sua musica testimone curioso, complice, eco di quel che la protagonista sente dentro di sé. L’artista sa coinvolgere in ogni momento della messinscena, orchestrando con perfetto equilibrio i toni del sarcasmo, del rancore, del desiderio. Quella che potrebbe apparire una negazione dell’identità (perdere il marito relega la donna a esistere in funzione dell’uomo non meno del vincolo coniugale) diviene preziosa e grottesca occasione di ottenere un posto al sole nella beneamata società. La regalità di una vedova non teme confronti: sfoggiare il lutto nelle occasioni comandate, incedere con dignità per le vie del paese, scegliere con cura certosina i migliori fiori per il caro estinto fanno dell’inconsolabile una figura di tutto rispetto, da guardare con ammirazione. E poiché contano i ruoli, non le persone, la convenzione, non il sentimento, essere inquadrati in una categoria, non vivere autonomamente, ben si comprende l’odio di Borina per il marito, emigrato in Australia e preso da un’altra donna, che le nega “il piacere del cimitero”. L’apparenza val bene anche il prezzo più assurdo ed ecco che, dopo una selezione che farebbe impallidire per accuratezza, Borina si finge vedova di sei sconosciuti che visita dal lunedì al sabato in sei diversi cimiteri, tutti così equanimi da essere passati rapidamente a miglior vita senza coinvolgere ipotetiche spose nei loro malanni. Il carattere ossessivo del rituale è sottolineato da un scenografia tutta giocata sull’iperbole: il gigantesco Cuore di Gesù che non ha garantito la dipartita di Cataldo, una parata di abiti neri che rifornirebbe dieci atelier, lapidi su cui sedersi la cui trasparenza non allude solo all’amorevole pulizia garantita dalla donna, ma anche al bisogno di vedere riflesso in esse uno status da difendere con le unghie e con i denti. Il ritorno a casa di Cataldo gli sarà fatale: come osa mettersi tra lei e i suoi mariti? Dapprima sarà la sostituzione della saccarina con lo zucchero per volgere il diabete del coniuge a suo favore e poi un liberatorio colpo apoplettico  assicurerà al consorte un maestoso monumento funebre. Anche la domenica sarà così riservata all’elegante omaggio (memorabile la scena in cui Borina prepara il suo tailleur nella paziente attesa che il marito lasci questa valle di lacrime). E i consigli dati a una donna anch’essa in cerca di un defunto che le permetta di entrare nel novero delle vedove conferma tutta la crudeltà di un copione che seppellisce ogni etica sotto l’imnmagine, borghese fino all’osso, della rispettabilità.

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