“Cinecittà” secondo Christian De Sica
A quella voce calda è facile perdonare molto
(l’uso compiaciuto di una comicità tutt’altro che raffinata, un certo gusto
vintage per sketch su cui pesa il passare del tempo) tranne la difesa del
cinepanettone come forma spuria d’arte in attesa di rivalutazione. Il musical è
ancora la dimensione ideale di Christian De Sica, come mostra lo spettacolo
“Cinecittà”, trionfalmente accolto al Teatro Verdi di Salerno, dove resterà in
cartellone fino all’8 marzo, ma l’eccessiva indulgenza verso le sue scelte risulta
una nota stonata. Nell’affettuoso florilegio di aneddoti sul tempio della
celluloide che nasce da un dialogo con la voce fuori campo di Fellini (da
Rossellini che gusta un gelato mentre papà Vittorio esala l’ultimo respiro ne
“Il generale Della Rovere” a un gruppo di scioperanti che scambiano degli
attori per veri cardinali, con conseguente scambio di “gentilezze“, fino
all’omaggio ad Alberto Sordi) De Sica si muove con perfetto controllo del gioco
scenico tra l’orchestra di Marco Tiso, il pianoforte di Riccardo Biseo e il
corpo di ballo che si avvale delle coreografie di Franco Miseria. Quando
interpreta i classici di Rabagliati o di Sinatra sa creare col pubblico
un’immediata complicità che nasce dalla tendenza a non prendersi mai troppo sul
serio. Ernesta Argira, Daniele Antonini
e Alessio Schiavo non si risparmiano nel deridere la smania di protagonismo di
chi aspira al grande schermo: ne è un esempio il singolare provino della versione
erotica di un viaggio in bus. Al momento di riconoscere i pregi del film
natalizio, però, con tanto di proiezione di alcune scene e laurea in
Cinepanettonologia, si scomoda persino Dante: non ha forse scritto del “cul”
che “facea trombetta”? Che la volgarità possa avere una sua efficacia
espressiva e senz’altro una carica liberatoria è cosa sotto gli occhi di tutti.
Ciò che latita nelle fortunate pellicole di De Sica è il concetto stesso di cinema, dato che
l’accozzaglia di gag non si traduce in uno specifico linguaggio iconografico né
in un sovvertimento di esso: vi è una semplice allergia al concetto di
sceneggiatura e di recitazione. E i fotogrammi dei divi del passato ricordano
quando stare davanti e dietro la macchina da presa aveva un senso e sognare in
una sala non era certo tempo sprecato.
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