sabato 10 ottobre 2015

“Antropolaroid”, istantanee dal passato



Essere inchiodati a un ruolo, a un destino? Si farebbe di tutto per sfuggire a questo copione, che si creino gabbie peggiori o si corra incontro alla libertà. Accolto entusiasticamente al Teatro del Giullare di Salerno, “Antropolaroid” di e con Tindaro Granata ha segnato la seconda tappa della rassegna di Vincenzo Albano, “Per voce sola”. Quando la voce del protagonista si fa strada nel buio descrivendo il momento dell’impiccagione, non crea semplicemente tensione attorno al primo personaggio sul palco (il bisnonno Francesco, umile e forte come tutti gli uomini legati alla terra, che si uccide per un cancro), ma allude a cappi ugualmente letali: la miseria, la sopraffazione, la legge del più forte che costringe il nonno Tindaro a essere al tempo stesso vittima e carnefice al servizio di Badalamenti in un omicidio mimato con gesti violenti e dolorosi, perché il corpo narra meglio delle parole ciò che fa a pezzi un’anima. Tutti i familiari in cui Granata si trasforma con un semplice movimento, con una rapida inflessione, cercano di sottrarsi a ciò che li imprigiona: zia Peppina, che ignora con dolce caparbietà la gamba offesa per insegnare il valzer a nonna Maria Rosa, la quale fugge per un amore che le farà del male, Nià Mena che la aiuta e vede nella giovane la possibilità di vivere che a lei, ex prostituta, è stata preclusa, papà Teodoro alla ricerca di un’autoaffermazione. Perfino zio Gasparino, che non vuole tenersi distante dalla pista da ballo a dispetto della meningite (ma nella Sicilia cocciutamente chiusa nel suo non tempo, dove la donna che conosce l’italiano è “buttana”, è la fantasia a esorcizzare il male e la paura, per cui è stato un angelo nero a rubare a Gasparino il pensiero quando era in fasce). Nel declinare tutte le sfumature del tormento e della tenerezza, all’artista bastano una sedia e un lenzuolo che diventano tomba, letto, vestito della festa, dato che sono appunto le emozioni a dominare la scena. Dal passato rivissuto anche con ironia (indimenticabile la bisnonna Concetta che sputa sulla lapide del marito, reo di averla resa vedova) emerge l’ansia dello stesso Tindaro di essere padrone di sé. Nella danza antica che sfida Badalamenti, inizia a infrangere le catene con l’isola che pure abita in ogni suo respiro. Sulla nave che lo porta verso il suo futuro di attore ritrova proprio il nipote del mafioso: la sua presenza è evocata da una sola lampadina accesa sul proscenio, dato che i legami con ciò che è stato sono l’unica certezza in un’esistenza tutta da definire. Ma non si torna indietro. E mentre il domani si avvicina, resta in Tindaro la benedizione della “stidda” assicurata dalla bisnonna: tanta bellezza, tanta fortuna, tanta sofferenza. Perché è il dolore il prezzo per alzare al cielo occhi nuovi.

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