Per voce sola, successo per “Letizia forever”
È dolce, timida, ha gli occhi vivi di una bambina
mentre è seduta compunta come una scolaretta su una pedana di legno dove
troneggia un mangianastri e sopra al suo capo ruota la classica sfera argentata
delle discoteche. Si fa presto a dimenticare la sua poderosa barba e a
considerarla più donna di qualsiasi altra donna. Che mistero volete che esista
in una creatura così tranquilla? Più di quanto si possa immaginare,
risponderebbe lei. Accolto calorosamente dal pubblico salernitano presso il
Piccolo Teatro del Giullare, “Letizia forever”, scritto e diretto da Rosario
Palazzolo, ha segnato la terza tappa di “Per voce sola”, la rassegna diretta da
Vincenzo Albano. Salvatore Nocera lavora sapientemente su pochi, efficaci
dettagli per tratteggiare il suo personaggio: l’ingenuità con cui racconta ciò
che l’emoziona, lo sguardo ferito quando rivive il suo dramma (urla indistinte
si odono all’inizio e alla fine della narrazione, perché evadere dal dolore è a
volte impossibile), l’ironia tanto più acuta quanto più proviene da
un’analfabeta a cui la vita ha fatto promesse non mantenute. Letizia è tenuta
sotto controllo in quello che sembra un ospedale psichiatrico (abbiamo solo il
suo punto di vista e tutto è estremamente ondivago) e poiché bisogna far luce
su un delitto, è spinta a dar voce ai pensieri sulle note di canzoni “genere
amore”, come lei le definisce. “La musica arragiona con l’icoscio” spiega, ma
“l’icoscio” è furbo: non si fa smascherare con facilità. Sulle note di Pupo,
Gianni Togni, Viola Valentino, sappiamo tutto di lei: il difficile rapporto con
la madre, la fuga col futuro marito, la solitudine, la scoperta del tradimento
e infine il coltello brandito. A questo punto, il buio: ha ucciso? È stata
uccisa? Il figlioletto che viene a trovarla e la chiama ora mamma, ora papà è
prova di una deriva psicologica? Letizia non sa e non vuole rispondere. Il
fatto stesso che siano le note, spazio delle sensazioni e delle illusioni, a
far emergere qualcosa di lei sull’onda di desideri frustrati mostra come la protagonista
resti ai margini del cosiddetto raziocinio. Non esiste un’unica realtà. Le
risposte non sono che dubbi fragili. E anche la sarcastica scelta metateatrale
di immaginarsi dinanzi a un pubblico per comprendere ciò che sfugge alla
comprensione, nonostante la prevalenza, ricorda, dei cretini (di qui la pedana
da cui orchestrare la sua “pièce”) deride la catarsi da sempre attribuita al
palco. Barba e ciabatte rosa non sono in contraddizione. Letizia è
pirandellianamente se stessa, suo marito, la vita sognata nei “fabulosi anni 80”, la vittima e il colpevole.
Inutile chiederle altro: è già tempo di ascoltare una nuova canzone.
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