martedì 13 giugno 2017

“Acqua di colonia”, il passato che non passa



Non è colpa loro. Non sono certo intelligenti come noi. Men che meno sanno raggiungere il nostro grado di evoluzione. E allora perché non farne scempio oggi come sessant’anni fa? Vetriolo gettato senza risparmio su stereotipi, violenze camuffate da perbenismo e ipocrisie cattoliche, “Acqua di colonia” è lo spettacolo che Elvira Frosini e Daniele Timpano hanno proposto presso l’Auditorium di Via Cantarella a Salerno nell’ambito di Mutaverso, la stagione teatrale diretta da Vincenzo Albano. La messinscena è basata sull’esasperazione di un assunto (l’atteggiamento razzista verso il mondo africano da parte degli Italiani) fino a farlo esplodere dall’interno nel momento in cui lo rende totalizzante. Sono ricostruiti il colonialismo italiano in Libia, Eritrea, Somalia, Etiopia e la propaganda che l’ha sostenuto, dallo sguardo ottocentesco pervaso da superiorità alla guida fascista dell’Africa, che mostra gli indigeni come affettuose e dissimulatrici bestioline, da “Tripoli bel suol d’amor” a “Topolino in Abissinia”, dove la dicotomia civiltà/barbarie non è meno agghiacciante del recente busto a Graziani o dei temi raccolti da Paola Tabet, in cui un genitore nero va denunciato, cancellato o smacchiato.  I dati sul massacro e su tutta una letteratura eurocentrica si rincorrono dinanzi alla tendenza a ridurre tutto a “quattro bombette puzzolenti” e a “quattro campetti di concentramento”, mentre il pubblico è continuamente apostrofato nella sua ignoranza e invitato a cantare “Faccetta nera”, per prendere fino in fondo atto di quel cadavere vestito di rispettabilità che è la cattiva coscienza. Il palco deserto su cui gli attori si muovono nella prima parte dello spettacolo rispecchia il vuoto pneumatico dell’italiano medio, ben sigillato nella sua incoscienza, e la presenza di un ospite silenzioso straniero all’oscuro dello spettacolo è motivata dall’incomunicabilità di due mondi intrappolati nella dinamica preda/cacciatore. Le soluzioni sceniche ipotizzate nel primo tempo e attuate nel secondo (l’infantile rapacità del bel paese, la donna nera che sogna la cittadinanza e la sterile solitudine di Pasolini a cui dà corpo la Frosini; la rozza esuberanza di Ninetto Davoli, l’agguerrito Topolino pronto a scuoiare i mori e la supponenza di Montanelli, ben lieto di avere una dodicenne africana per sé, creati da Timpano) mostrano nella recitazione disturbante e provocatoria quale veleno tenace sia il disprezzo dell’altro del quale, a conti fatti, non importa nulla. Declinando gli stessi concetti dal punto di vista didattico e performativo, gli interpreti creano una claustrofobica cecità in cui l’approccio colonialista non perde la sua aggressività a dispetto del tempo che passa. Aida oggi morirebbe asfissiata in un camion e la finta empatia di Karen Blixen non è meno pericolosa del nemico dichiarato. Anche i buoni propositi sono infatti nel mirino. Il pelouche lanciato sul palco e guardato con ribrezzo, ontologicamente diverso e dunque inferiore, fa le veci del bimbo africano negli spot dell’Unicef, formidabile arma di ricatto psicologico, osservato dall’alto della generosità occidentale. E quando gli interpreti, con le maschere antigas di Topolino, lo portano via in un sacco di plastica nella luce gialla del gas sulle note di “Addio, sogni di gloria”, non è cambiato nulla: i sedicenti civili continuano a mietere morte. Sta anche al teatro fare in modo che sia davvero acqua passata.

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