“Acqua di colonia”, il passato che non passa

Non è colpa loro. Non sono certo intelligenti come
noi. Men che meno sanno raggiungere il nostro grado di evoluzione. E allora perché
non farne scempio oggi come sessant’anni fa? Vetriolo gettato senza risparmio
su stereotipi, violenze camuffate da perbenismo e ipocrisie cattoliche, “Acqua
di colonia” è lo spettacolo che Elvira Frosini e Daniele Timpano hanno proposto
presso l’Auditorium di Via Cantarella a Salerno nell’ambito di Mutaverso, la
stagione teatrale diretta da Vincenzo Albano. La messinscena è basata sull’esasperazione
di un assunto (l’atteggiamento razzista verso il mondo africano da parte degli
Italiani) fino a farlo esplodere dall’interno nel momento in cui lo rende
totalizzante. Sono ricostruiti il colonialismo italiano in Libia, Eritrea,
Somalia, Etiopia e la propaganda che l’ha sostenuto, dallo sguardo ottocentesco
pervaso da superiorità alla guida fascista dell’Africa, che mostra gli indigeni
come affettuose e dissimulatrici bestioline, da “Tripoli bel suol d’amor” a “Topolino
in Abissinia”, dove la dicotomia civiltà/barbarie non è meno agghiacciante del
recente busto a Graziani o dei temi raccolti da Paola Tabet, in cui un genitore
nero va denunciato, cancellato o smacchiato.
I dati sul massacro e su tutta una letteratura eurocentrica si
rincorrono dinanzi alla tendenza a ridurre tutto a “quattro bombette puzzolenti”
e a “quattro campetti di concentramento”, mentre il pubblico è continuamente apostrofato
nella sua ignoranza e invitato a cantare “Faccetta nera”, per prendere fino in
fondo atto di quel cadavere vestito di rispettabilità che è la cattiva
coscienza. Il palco deserto su cui gli attori si muovono nella prima parte
dello spettacolo rispecchia il vuoto pneumatico dell’italiano medio, ben
sigillato nella sua incoscienza, e la presenza di un ospite silenzioso
straniero all’oscuro dello spettacolo è motivata dall’incomunicabilità di due
mondi intrappolati nella dinamica preda/cacciatore. Le soluzioni sceniche
ipotizzate nel primo tempo e attuate nel secondo (l’infantile rapacità del bel
paese, la donna nera che sogna la cittadinanza e la sterile solitudine di
Pasolini a cui dà corpo la Frosini; la rozza esuberanza di Ninetto Davoli, l’agguerrito
Topolino pronto a scuoiare i mori e la supponenza di Montanelli, ben lieto di
avere una dodicenne africana per sé, creati da Timpano) mostrano nella
recitazione disturbante e provocatoria quale veleno tenace sia il disprezzo
dell’altro del quale, a conti fatti, non importa nulla. Declinando gli stessi
concetti dal punto di vista didattico e performativo, gli interpreti creano una
claustrofobica cecità in cui l’approccio colonialista non perde la sua
aggressività a dispetto del tempo che passa. Aida oggi morirebbe asfissiata in
un camion e la finta empatia di Karen Blixen non è meno pericolosa del nemico
dichiarato. Anche i buoni propositi sono infatti nel mirino. Il pelouche
lanciato sul palco e guardato con ribrezzo, ontologicamente diverso e dunque
inferiore, fa le veci del bimbo africano negli spot dell’Unicef, formidabile
arma di ricatto psicologico, osservato dall’alto della generosità occidentale. E
quando gli interpreti, con le maschere antigas di Topolino, lo portano via in
un sacco di plastica nella luce gialla del gas sulle note di “Addio, sogni di
gloria”, non è cambiato nulla: i sedicenti civili continuano a mietere morte. Sta
anche al teatro fare in modo che sia davvero acqua passata.
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