giovedì 22 giugno 2017

“Due”, un catalogo di banalità



Due è il numero perfetto, a meno che non si desideri sposarsi, riprodursi e invecchiare serenamente insieme. La commedia di Miniero e Smeriglia, diretta da Luca Miniero e applaudita presso il Teatro Verdi, affoga le dinamiche della coppia in un catalogo di stereotipi che fa sembrare Vanity Fair (citato non a caso come autorevole fonte di statistiche) un capolavoro di psicologia. Raoul Bova è Marco, calabrese fiducioso nel binomio amicizia-copula, che considera un sacrificio supremo rinunciare alla soppressata. È professore di ginnastica con ambizioni di filosofo, impegnato in un trattato sull’essere, “Due” appunto, che però non vedrà mai la luce, perché non c’è risposta definitiva alla condizione umana. Paola (Chiara Francini), pedante, nevrotica e dissacrante, guarda con timore al matrimonio che li attende. E mentre lui monta il letto, le domande della fidanzata costringono a riflettere su desideri e frustrazioni. Le sagome in scena riproducono ciò che saranno i protagonisti tra vent’anni, con amanti e figli, pronti a cadere nella trappola della noia da cui li salverà solo la voglia di condividere corpi e risate. Tra approccio pseudofilosofico e zumba infatti non c’è partita: ecco il palco tramutarsi in discoteca e l’invito “Scopiamo?” dissipa ogni tipo di dubbio. Che si abbia una visione ironica del sesso o del pensiero di Epicuro, citato nel modo più banale possibile, ben venga. Il problema è che quella che viene presentata come leggerezza è in realtà superficialità che non può contare neppure su una scrittura accattivante: l’unica battuta degna di essere ricordata, pronunciata dopo la conclusione perché gli amanti sono sempre problematici, riguarda la voglia di avere un figlio da parte di Paola a cui Marco risponde. “Ma non sai mai chi ti metti in casa!”. Le voci fuori campo dei telegiornali all’inizio della messinscena alludono ad attentati terroristici. L’intento è probabilmente quello di contrapporre alla macrostoria il “dramma” da tinello di due borghesi, ma la scelta resta un’inutile aggiunta. Le assi di legno appese alle spalle dei protagonisti alludono alla difficoltà di creare qualcosa che sappia davvero resistere allo scorrere del tempo e diventano simbolo dei luoghi comuni affastellati nello spettacolo (l’incapacità di restare con l’amante, il bisogno di rincorrere la giovinezza, la genitorialità carente) e che diventano asfittici proprio perché totalizzanti. Se il cortese Raoul Bova sembra svolgere un compito a cui per primo non crede, Chiara Francini è sicuramente generosa nel dominare il palco dall’inizio alla fine, ma la sua prova risulta statica perché giocata quasi sempre sull’unica nota dell’attacco a ogni retorica. Sottovalutare la leggerezza evidentemente non paga.

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