venerdì 23 giugno 2017

“Demoni”, l’essenza del teatro



Il frammento non si limita a riflettere il tutto. È esso stesso mondo libero di prendere corpo solo alla luce della propria logica. E la logica del teatro, da sempre, è l’empatia. Emozionante percorso tra i personaggi del romanzo di Dostoevski vissuti appunto sotto forma di frammenti, il progetto “Demoni” di Alessandra Crocco e Alessandro Miele ha coinvolto il pubblico salernitano nell’ambito di Mutaverso, la stagione teatrale diretta da Vincenzo Albano. Nel cuore del centro storico, gli interpreti si sono esibiti per uno spettatore alla volta, immediatamente immerso nell’atmosfera dell’opera, accogliendone l’universalità, dopo aver ricevuto poche, essenziali indicazioni. Alessandra Crocco è stata Marija presso Casa Sant’Angelo e Liza a Palazzo Conforti, mentre lo Stavrogin di Alessandro Miele è andato in scena presso la Chiesa di Sant’Apollonia per un gruppo di dieci spettatori a turno: scelta motivata dall’egocentrismo di quest’uomo, epicentro dell’opera e fuoco che divora chi si relazioni con lui. Ripetere per ore la medesima performance risponde al duplice scopo di esaltare l’essenza del palcoscenico (ognuno in platea vive un personalissimo rapporto con l’attore,che a sua volta vuole entrare nella mente di chi l’osserva) e di esprimere l’ossessione che imprigiona le tre figure. Marija attende il suo amato con la trepidazione di chi si consacra. Il buio della stanza, rischiarato solo dalla candela sul tavolo al suo fianco, rimanda all’esigenza di vivere unicamente per il momento dell’incontro, azzerando tutto il resto. E come lo spettatore le è dinanzi senza difese, lei lo imprigiona nei suoi occhi, narrando con lenta dolcezza come ha sognato di rivedere il suo uomo, per poi assumere uno sguardo ostile: chi le siede dinanzi non è quello che attendeva e intima di andarsene. Le ossessioni sono però destinate a dissolversi per poi risorgere. Intonare sommessamente Là ci darem la mano è desiderio di non evadere dal sogno di una felicità che dura meno della fiamma di una candela. Liza, che parla a Stavrogin dopo una notte d’amore (chi entra è invitato a disporsi sul letto a piacimento, con l’arroganza dell’amante dominatore), è invece dolorosamente consapevole dell’impossibilità di vivere con lui. Non vuole sacrificarsi al suo egoismo. La determinazione con cui si sta staccando è però colma di amarezza. Il peso della perdita si impone sul sentimento di liberazione. La fissità dello sguardo e i movimenti ipnotici protraggono l’addio fuori dal tempo. Non basta la lontananza dai corpi a sanare l’anima. Seppellendo ancora e ancora il legame che l’ha segnata, la donna è una reduce che non vuole, malgrado tutto, staccarsi dal pensiero che la logora. Tra teli di plastica che ricordano le pareti della stanza di un manicomio, sulle note incalzanti di The passenger di Iggy Pop, Stavrogin salta convulsamente sulla terra bagnata, che fa pensare al fango della sua condotta morale o a una sepoltura recente. Del resto, il crimine che ha commesso è sempre davanti ai suoi occhi. La sua assurda danza è metafora della scelta che lo ha sempre guidato: calpestare senza ritegno, imporre con violenza il peso della sua personalità. Si ferma solo per rievocare lo stupro della bambina che si è impiccata per la vergogna di quel che le ha fatto. E quando dice al pubblico che tornerà a parlare di queste cose, si comprende come sia ostaggio di se stesso. I fantasmi della mente sono inquilini molesti. Non basta una vita a liberarsene, forse perché sono la vita stessa.

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