giovedì 15 giugno 2017

“Il prezzo”, il veleno del denaro



“Questa roba deve valere qualcosa”. Sembra di veder brillare gli occhi di Esther mentre osserva gli oggetti coperti da un telo in attesa di essere venduti. Ma in gioco ci sarà molto di più. Accolto con favore dal pubblico del Teatro Verdi di Salerno, “Il prezzo” di Arthur Miller è andato in scena per la regia di Massimo Popolizio, che divide il palco con Umberto Orsini,Elia Schilton e Alvia Reale. Tutto ciò che è nell’appartamento deve essere messo in vendita a causa della demolizione dello stabile (i rumori delle esplosioni scandiscono la tensione del racconto). Non è solo per ragioni sceniche che gli oggetti siano accatastati su un lato del palcoscenico dinanzi al quale gli attori si muovono. Questa sistemazione visualizza la polarità che innerva l’intera rappresentazione. Ciò che è in vendita e ciò che non lo è (coscienza, affetti, tempo), ciò che può scomparire passando da un padrone all’altro  e ciò che resiste tenacemente sotto la scorza dei giorni (i legami, i rancori): in una parola la materialità e la spiritualità, anche se nella cornice impietosa del dramma questi termini hanno ben poco di solenne. Se i beni, infatti, ridotti soltanto a merce, non raccontano più un’appartenenza, le persone  a loro volta vivono con il denaro il rapporto ossessivo dell’ineluttabilità. Esther non vuole che il marito Victor vada al cinema con la divisa da poliziotto: deve proprio far capire a tutti quanto guadagna? Il fratello del protagonista, tornato a riaprire ferite anziché sanarle, gli rinfaccia di essere stato un fantoccio nelle mani del padre accudito fino all’ultimo giorno. Si scopre che quest’ultimo, non del tutto abbattuto dalla crisi, era in possesso di una certa somma di cui era comunque ostaggio. La stessa moglie del poliziotto è un’alcolizzata che non ha pareggiato i conti con la precarietà e Victor, che si è cullato nella dedizione al padre, vede nel disastro dei rapporti familiari quanto sia compromesso quel bene incalcolabile che è la possibilità di fare della propria vita quel che si vuole. Umberto Orsini, il broker che si muove con la naturalezza di chi inquadra tutto nell’ottica del dare e dell’avere, si ritrova testimone di una feroce resa dei conti. La recitazione enfatica, innaturale evidenzia il bisogno dei personaggi di ancorarsi ad alibi inconsistenti, finchè l’ostilità repressa li distrugge. Nella conclusione sembra esistere una speranza per Esther e suo marito. Ma il balletto a cui, ormai solo con la sua fonte di guadagno, Orsini si abbandona mentre le esplosioni sono sempre più incalzanti, è un’immagine chiara: l’euforia non è mai così viva come nel momento in cui sta veramente crollando tutto.

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