martedì 27 marzo 2018

“SS45326-La gabbia di vetro”, l’orrore alla sbarra



Si dice che chi subisce un danno è pericoloso, perché sa di poter sopravvivere. E quando è superato ogni limite, ai carnefici non basta guardarsi di continuo le spalle: la tenacia delle vittime li raggiungerà proprio dove si sentono al sicuro. Basato sul testo di Carmen Piermatteo Gatto, “SS45326-La gabbia di vetro” è lo spettacolo proposto dalla compagnia amatoriale “Arena historica” per la regia di Andrea Carraro presso il Teatro delle arti di Salerno. L’allestimento, fortemente voluto dalla Fondazione Filiberto e Bianca Menna presieduta da Claudio Tringali e dall’Associazione Amici della Fondazione che ha in Rosanna Belladonna la sua presidentessa, ricostruisce con cura e passione la storia del processo al nazista Adolf Eichmann, interpretato da Riccardo Notari, che contribuì fattivamente al piano di sterminio ebraico, pur presentandosi come un semplice strumento nelle mani del potere. Lo scenario del 1961 è tratteggiato con onestà intellettuale. L’imputato presenta una sua cupa coerenza nella fedeltà ossessiva al Reich come nell’ipocrita richiesta di perdono, poiché un sentimento di superiorità morale lo rende comunque autorevole ai propri stessi occhi. Il contesto israeliano è recuperato nelle sue scomode lacerazioni: i sopravvissuti alla Shoah considerati scarti da parte dell’orgoglio sionista, l’ostilità verso Hannah Arendt, che seppe cogliere l’aspetto burocratico, e dunque pervasivo,  della malvagità, le ombre del collaborazionismo. Mentre Tringali dà corpo e anima all’intransigenza di Moshe Landau, presidente della corte di Gerusalemme che vuole difendere la giustizia senza remore né trionfalismi, sostenuto dalla moglie (Rosanna Belladonna), la difesa, che ha il volto di Marcello Giani, tenta di delegittimare l’azione contro il suo assistito, prendendo le mosse proprio dal modo in cui quest’ultimo fu catturato dal Mossad, che lo scovò in Argentina e lo drogò per condurlo in Israele. Trova tuttavia un degno avversario nell’appassionato pubblico ministero Gideon Hausner (Arnaldo Franco), mentre strazianti testimonianze si susseguono. La messinscena si affida alla nuda essenzialità delle parole, perché la forza delle argomentazioni possa risaltare in tutta la sua limpidezza. Si assiste a una sorta di castità estetica: la scenografia è semplicissima, basata su tavoli e pochi giochi di luce, mentre gli interpreti, lontano da qualsiasi velleità, vogliono proporsi come specchio di un evento che non cessa di inquietare. Come impedire al nazismo di avvelenare per sempre l’anima? Recuperando ciò che di umano può esistere, come mostra la decisione di Moshe Bejski (Carraro) e di Landau di creare un Giardino dei Giusti. L’applauso beffardo di Eichmann dopo la condanna non fa che confermare come sia morto ancora prima che la corda della sentenza gli spezzi il collo. Ciò che impone la sua forza è
spesso più buio di un sepolcro e ciò che è morto ritorna a donare un motivo per vivere.

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