domenica 25 marzo 2018

“Ofelia in the dog days”, il corpo e il dolore



Il corpo può essere la peggiore delle prigioni. E come uscirne se non attraverso il dolore fino all’ultimo spasimo? Basato sull’omonimo monologo di Emanuele Tirelli, maturato nell’ambito di un progetto contro i disturbi alimentari, “Ofelia in the dog days” è lo spettacolo diretto da Alessandro Gallo e applaudito nell’ambito di Out of Bound, la manifestazione promossa dalla Laav di Licia Amarante e Antonella Valitutti presso la Chiesa di Sant’Apollonia di Salerno. L’abbacinante concretezza dell’opera di Tirelli, che unisce con profondo trasporto crudeltà e struggimento, trova l’interprete ideale in Giulia Pizzimenti per l’intensità e il coraggio con cui si prodiga in un personaggio disturbante. L’anoressia e la bulimia che stritolano Ofelia, tra ambizioni lavorative, estranei solo all’apparenza equilibrati e un Amleto che antepone le intenzioni alle iniziative, nascono da un insolente e sacrosanto disgusto per tutto ciò che non sia comprensione e amore. Testimone e simbolo di questo deserto emotivo è l’uomo silenzioso con la maschera di Bush, perfetto emblema di ottusità (il generoso Marco Ziello) che è psicologo, amante e alfiere di una borghesia che ha a cuore i propri riti. È lui a lanciare piatti, prova di una natura “sbagliata”, contro il frigo a cui è addossata e oppressa dalla propria fragilità la protagonista alla ricerca del consenso dei cosiddetti normali. Il frigo diventa postazione da cui ostentare il comportamento di donna in carriera o ciò che contiene solo polistirolo: il cibo diventa così strumento di nevrosi, ingombrante o pronto a vanificarsi a seconda di come si è scelto di riversare odio sulla propria pelle.  La giovane attraversa tutte le fasi della rovina: la menzogna (seduta sul frigo come se tutto fosse sotto controllo), la reclusione nel proprio io (la danza in cerchio e la corsa sul posto), l’autodistruzione (il lancio di piatti e le urla alternati a frasi di circostanza), la consapevolezza di come sia impossibile sottrarsi alla sofferenza. Ecco perché, quando finalmente i due si guardano in viso, la migliore conclusione è affidata alle parole di “Hamletmachine” di Muller: quelle di un’Ofelia che ha smesso di uccidersi per scendere in strada, vestita del suo sangue. Solo allora si è se stessi. Vomitare la vita a volte è l’unico modo per ritrovarla.

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