mercoledì 19 luglio 2023

Il ”Barabba” di Tarantino, gli ultimi e la grazia

 

Non c’è mica bisogno di cercare in cielo il Redentore: le galere della Galilea traboccano di “gesucristi” tormentati in ogni modo, con buona pace di una fantomatica riforma delle carceri puntualmente disattesa. Spettacolo di notevole impatto emotivo, ”Barabba” di Antonio Tarantino ha visto in scena al Teatro Ghirelli, per la regia di Teresa Ludovico, un Michele Schiano Di Cola appassionato e appassionante nell’offrire una complessa versione del celebre ladrone. Il testo di Tarantino si caratterizza per una coinvolgente energia nel contrapporre gli ultimi a coloro che “tengono in mano i coglioni del mondo”, i potenti che possono mutare accento, ma non pensiero nel martellante bisogno di manipolare, imporre, schiacciare. Dove, infatti, si rinnova l’antico copione di oppressi e oppressori, è più viscerale e aggressiva l’esigenza di sputare l’anima per un attimo di libertà, soprattutto se un pazzo, il Figlio di Dio, arriva a scompaginare  le carte. Il protagonista percorre faticosamente una struttura verticale, creata da Vincent Longuemare, inserendo dapprima parte del corpo tra i pioli di una scala, per poi giungere lentamente alla cima. Questa scelta allude, naturalmente, all’oppressione della prigione (Barabba si muove in un luogo angusto come topi e scarafaggi nei buchi delle celle, conoscendo la degradazione), ma anche alla dialettica alto/basso, che non è solo spietata gerarchia sociale, ma anche tentativo di cogliere l’uno nell’altro, di denudare di ogni retorica l’altezza e di lasciarsi attraversare fino in fondo dalla cosiddetta bassezza. Il fatto che si rivesta man mano che sale è dovuto alla sua imminente liberazione, ma anche al suo riprendere il proprio posto nel mondo, opponendo apparenza (gli abiti, cioè il ruolo che gli è cucito addosso) all’essenza (la presa di coscienza a cui lo induce il Cristo). Il flusso vertiginoso di parole con differenti inflessioni dialettali rimanda alla trasversalità della condizione del prigioniero e all’urgenza di dimostrare che anche il confinato in un ”merdaio” è ancora vivo, mentre il tono berlusconiano, le pose mussoliniane, alcune movenze alla Totò e il ritmo rap connotano i padroni compiaciuti dalla propria elevata posizione, dato che, sotto diverse maschere, il volto del potere resta lo stesso. Tra rime, assonanze, asprezze, lirismi, il linguaggio ha prevalentemente un andamento poetico in cui la parola si fa sarcasmo e insulto contro chi degrada in nome dello status quo e merita l’attacco di un comunista-fascista-anarchico-individualista, di un uomo, cioè, che vuole difendere l’autodeterminazione ben oltre le etichette con cui è comodamente individuato. Poiché, però, in quella fogna che è il mondo, vittima e carnefice possono non essere poi così distanti, la derisione e l’aggressività che il personaggio riserva al Salvatore, di cui sono narrati in modo antieroico il martirio e la benevolenza, non sono poi così diverse dalla beffarda umiliazione imposta da chi conta a chi è colpito. Il prigioniero, dunque, non è di certo una figura a senso unico : desidera, sopra ogni cosa, lasciare una traccia di sé, è rabbiosamente conscio di quanto il genere umano sia irrecuperabile, mostra un ironico distacco dalla pretesa di salvarlo che il Dio uno e trino gli manifesta telefonandogli, per poi scoprire che tra lui, Gesù Barabba, e il crocifisso che predica amore non vi è alcuna differenza. Soltanto un outsider, in effetti, avrebbe potuto comprendere che solo ciò che è reietto nasconde la grazia. Amare è davvero da folli e non sappiamo cosa ne sarà del ladrone scarcerato, ma adesso qualcosa è cambiato nel suo sguardo. Anche dove “nevica il nero” può esistere un varco, l’occasione di riscoprirsi, senza filtri, umani.

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