lunedì 17 luglio 2023

“Il colloquio”, il tempo sospeso di tre vite

 

Non si può essere se stessi e un altro contemporaneamente, direbbe la logica. Ma la logica va a farsi benedire, quando si attende di parlare col proprio uomo in carcere. Spettacolo profondo nella sua essenzialità evocativa, “Il colloquio” del Collettivo Lunazione, su progetto e regia di Eduardo Di Pietro, ha segnato, presso il Teatro Ghirelli, la seconda tappa di Mutaverso, il progetto a cura dell’associazione Ablativo di Vincenzo Albano. Con rara attenzione ai dettagli e una rigorosa consapevolezza del ritmo scenico, Renato Bisogni, Alessandro Errico e Marco Montecatino alludono allo stereotipo della madre di famiglia napoletana, tutta passione e irruenza, per sovvertirlo in nome di una scomoda credibilità umana. Maria Assunta, pronta a trarre un guadagno da qualsiasi circostanza, Pina, la più ingenua, e Annarella, detta cor’e fierr per la determinazione con cui gestisce i parenti dietro le sbarre, hanno rispettivamente un figlio e un marito a Poggioreale e sono in fila per incontrarli. Diverse per il loro passato e il loro approccio alla vita, possono essere, tuttavia, considerate tre versioni della medesima persona, come sottolineato fin dall’inizio, quando le accomuna il gesto di usare il rossetto e di prendere la borsa ricca di cose da portare al colloquio. Fragilità, tenacia e amarezza sono, in effetti, le fasi che la madre o la moglie di un carcerato attraversa in quel tempo sospeso che precede l’incontro, quando le certezze difese caparbiamente vacillano tra cinismo, solitudine e miseria. Che le donne siano interpretate da uomini evidenzia il predominio di una visione maschile che rende speculari l’interno e l’esterno della prigione: alla carcerazione fisica corrisponde quella spirituale, perché le ragioni dell’uomo sono totalizzanti. Non è infatti, un caso, che il colloquio vero e proprio non vada in scena : quando, per un momento, Anna impersona il marito di Pina e Maria Assunta diventa una guardia, perché il terzo personaggio possa rivelare la propria maternità e il proprio bisogno di essere libero, lo spettatore avverte l’ineluttabilità e l’incomunicabilità di un legame che pretende dedizione, ma che non soffoca l’urgenza –viva in tutte e tre- di essere finalmente altro, di esistere per sé. Come in ogni luogo di reclusione, l’empatia è, in ogni caso, una conquista difficile: buttare all’aria gli oggetti preparati da Pina per il marito, perché sarebbero sequestrati subito, giungere allo scontro fisico, all’inizio mimato a distanza, perché la mente di ognuna è confinata nella propria cella, il tentativo della stessa Pina di farsi picchiare per abortire e tagliare finalmente i ponti con una vita misera sono tutte azioni che riflettono l’asfissia emotiva della prigionia. Una piccola luce, però, può annidarsi ovunque. Si scopre che Maria Assunta è in fila ogni settimana, malgrado il figlio sia morto in carcere. Proprio la figura più aggressiva e disincantata protegge l’amore e accoglierà, coi suoi modi bruschi, sotto l’ombrello le altre due. Mentre il buio dilaga e le si vede lì, sospese in un tempo che non passa, le ferite non guariscono, ma il domani non sembra, per un attimo, un fantasma, qualcosa da indovinare dietro un muro senza appigli.

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