mercoledì 4 dicembre 2024

Titizè, il trionfo della libera percezione

 Nell’osservare ciò che accade in scena, risulta naturale dare ragione a Giambattisto Marino (“E’ del poeta il fin la meraviglia”), ma Titizè – A venetian dream è ben oltre questo assunto: la carica evocativa dei movimenti e del suono conduce lo spettatore dove non avrebbe immaginato di giungere. Ha aperto con pieno successo la stagione di prosa del Teatro Verdi lo spettacolo di Daniele Finzi Pasca

con Gian Mattia Baldan, Andrea Cerrato, Francesco Lanciotti, Luca Morrocchi, Gloria Ninamor, Caterina Pio, Giulia Scamarcia, Rolando Tarquini, Micol Veglia, Leo Zappitelli. Le musiche, eseguite dall’Orchestra di Padova e del Veneto diretta dal Maestro Pasquale Corrado con la partecipazione del Coro Città di Piazzola sul Brenta, portano la firma di Maria Bonzanigo, la scenografia è a cura di Hugo Gargiulo, assistito da Matteo Verlicchi, mentre i costumi sono di Giovanna Buzzi. Che l’allestimento sia un atto d’amore verso Venezia, a cui rimandano maschere, costumi, il titolo stesso, che significa tu sei, è, per così dire, solo l’inizio del viaggio. Nella bellezza dei quadri proposti, infatti, il pubblico è spinto a rintracciare sensazioni nel modo più libero possibile. Da qui la scelta di annullare qualunque confine tra palco e platea nel momento in cui gli interpreti si muovono tra gli spettatori, magari con la sagoma di un impetuoso cavallo o inviando un delfino telecomandato sulle teste di chi osserva. Nel giocare con tutte le possibilità espressive del corpo, tra prodigiose scalate, sospensioni, funambolismi che intrecciano grazia e passione, si apre il ventaglio delle interpretazioni senza sottrarsi ad alcuna suggestione, che si tratti delle influenze di Tiepolo e Longhi o delle composizioni di Vivaldi e Donizetti in un tessuto sonoro originale. Quando uno degli interpreti percorre una pertica come se la gravità non esistesse, sta esortando a sperimentare l’attrazione verso il mondo onirico e a non temere di ripiombare verso il basso, dove sembra che tutto sia chiaro e definito. Nel confronto tra un eroe in armatura malamente sbatacchiato di qua e di là e un raffinato controtenore non vi è solo il rimando all’Orlando furioso, ma si contrappone la forza della musica, che sa sopravvivere a tutto, al convulso e assurdo succedersi degli eventi umani. La partita di paddington, in cui si misurano gli artisti impegnati poco prima nella glassa armonica (strumento associabile all’acqua di Venezia, ma anche alla fluidità dei pensieri) ricorda l’importanza della dimensione giocosa nelle azioni e nelle consuetudini, al punto di poter affermare che giocare (jouer significa recitare in francese, non a caso) diventa sinonimo di vivere, anche se le regole vengono continuamente e  sarcasticamente riscritte. Anche l’esibizione del mago, a conclusione della quale una delle protagoniste dovrà andarsene con una lama conficcata nella schiena, mentre assistenti vestiti da insetti sono ironici complici, pone in evidenza il fascino inossidabile dell’illusione. La maestosa sirena che sovrasta ondeggiando i bagnanti, pronta a scacciarli capricciosamente, è un invito ad abbandonare la rigida razionalità e al tempo stesso, nella sua aura fiabesca, mostra la vanità delle frontiere tra un ambito e l’altro, tra una percezione e l’altra. Il cerchio in cui si sovrappongono un uomo e una donna bendata (la vista comunemente intesa non soccorre, quando emerge ciò che si ha dentro) in un continuo ondeggiare (il tempo è ciclico) fa da controcanto all’esibizione di due figure che, sospese in uno spazio delimitato dai laser come se fossero in un prisma, si cercano, si uniscono, si allontanano, restituendo sacralità all’unione dei corpi, mentre un interprete diffonde fumo con indosso una maschera di maiale. Si ha, così, una sorta di moderno turibolo, mescolando levità e dissacrazione. Innovazione e tradizione si danno la mano, se, per esempio, si gira in cerchio in tre su una bici intonando una filastrocca per Goldoni : nulla viene davvero dimenticato, se si traccia il periplo della fantasia. In questa festa dei sensi, risulta coerente la telecamera, puntata dall’alto su attori che agiscono restando a terra e comunica, quindi, l’idea che si trovino su un piano verticale coloro che in realtà sono su un piano orizzontale. Visioni, dinamiche, spazi sono, dunque,  energicamente ripensati senza trascurare aspetti esoterici (gli attori con maschere di elefanti e rinoceronti nella conclusione). Le geometrie degli acrobati vestiti da Pulcinella catturano lo sguardo nell’ultima fase della messinscena. La malinconica e ammaliante leggerezza delle figure induce a comprendere che il teatro è la risposta e c’è sempre un altrove da respirare. 

mercoledì 3 aprile 2024

“Rubedo”, la ricerca di sé di un poeta ramingo

 Cosa fare quando il tempo stesso è una malattia e troppe volte si è giunti a tradire la propria identità? Donarsi un nuovo approdo rinunciando all’idea stessa di approdo. 

Complesso e seducente viaggio in ciò che si è e che si può essere, “Rubedo” è lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Giuseppe Affinito, che ha convinto gli spettatori del Teatro Ghirelli. Il titolo, che rievoca Margherite Yourcenar, indica, nella sapienza alchemica, la fase in cui i metalli si mutano in oro e, nella messinscena, tale momento corrisponde alla realizzazione del sé, allo scoprirsi creatura del mondo libera dai lacci delle categorizzazioni. Non si tratta, naturalmente, di un percorso né lineare né indolore, che deve iniziare dall’infanzia (la voce da bambino che canta Dove sta Zazà da una musicassetta) e dallo sdoppiamento (la voce registrata dello stesso Affinito adulto). Muoversi tra i ricordi, una stanza ingombra di oggetti che il protagonista esamina con una torcia, accendendo piccole luci una dopo l’altra, diventa un modo per fronteggiare i silenzi, “gli spazi bianchi affollati di cecità”, ed esaminare fino in fondo la sete dell’altro, che ha spesso condotto a chiedere aiuto a una “folla di casuali predatori” e a cercarsi negli sguardi degli estranei. L’attore adagia su una sedia i propri indumenti (presentarsi, inoltre, vestito di nero, di rosso e poi di bianco rifletterà la trasformazione di uno spirito in ciò che lo appaga), immaginando si tratti dell’ennesimo amante pronto ad andarsene senza lasciare traccia. Ed è in quel momento che occorre uno spregiudicato senso della realtà: con un mantello in testa, l’interprete diventa una sorta di madre-sorella, che lo rimprovera di essere “troppo insoddisfaziabile” nella sua ricerca di qualcuno che lo completi, quando gli esseri come lui sono per definizione “incompleti e incompletabili”. Eppure, mentre scrive brevi frasi sugli specchi in un diario frammentario ed evocativo, il giovane sa cosa desidera : essere un poeta, fare del linguaggio la propria casa, anche se rischia continuamente il crollo, come prova il sogno in cui restano solo “sparute rimembranze di voci”. Se, inoltre, le parole possono davvero tutto, diventano facilmente coltelli, come accade con i commenti di omofobi contrastati da una danza ironica, con tanto di corna fluorescenti su un tappeto di rose, sulle note di Sorry, i’m  a lady. “La parola è il mio cuore”, dice l’artista: attraverso di essa è possibile percorrere distanze impensabili, come quella che separa dalla propria essenza e in un tripudio di coriandoli bianchi, mentre bianchi lenzuoli coprono con affetto il contenuto della stanza (il colore della possibilità), il “ramingo cleptomane di desideri” comprende la necessità di “lasciarsi accadere”, di oltrepassare la linea dell’autodeterminazione. Quando afferma “Voglio scintillare nei miei occhi come il più prezioso dei metalli” o “Voglio lacerarmi in un grido che arrivi ovunque vi sia luce”, sta narrando il prodigio di divenire tempo, energia, fluire incondizionato di sensazioni. Non bisogna temere il buio abbagliante che si spalanca ai fragili sogni delle parole. 

“Il dito in bocca”, la buia inquietudine di una figlia

 


Non c’è madre al mondo che non abbia rimproverato la figlioletta per essersi succhiata continuamente il pollice; nulla di strano, si direbbe. Eppure quante sensazioni irrisolte dietro un gesto così innocente. Accolto con favore presso il Piccolo Teatro del Giullare, “Il dito in bocca” di Rosario Galli, per la regia di Andrea Carraro e l’aiuto regia, le luci e l’audio di Virna Prescenzo, vede in scena una Irma Ciaramellla alla quale è impossibile togliere gli occhi di dosso per la sua magnetica prova interpretativa, in cui derisione, tormento, desiderio di pace sono espressi con spiazzante sincerità. Fondamentale, nella riuscita dello spettacolo, anche la superba traduzione in lingua napoletana del compianto Francesco Silvestri che riesce, in tal modo, ad ampliare le suggestioni del testo, rendendolo molto coinvolgente. La protagonista, pronta, un tempo, a succhiare il dito ogni volta che ha sfidato l’arido mondo adulto, scende in uno scantinato, trasparente immagine del rimosso, dove oggetti incellofanati (ricordi mummificati, ma non innocui), abiti e mobili le ricordano tutta la sua vita in un colloquio tagliente con la madre, che, nel finale, risulterà morta. Non è, però, morto ciò che le ha sempre divise: la donna, mai empatica nei confronti della figlia, ha voluto dominarla senza aprirle davvero il proprio cuore, come rivela la battuta “Ngopp o fatt ro parlà, t’enn semp iut e scarp stritt”. Il ritrovamento di Oreste, un cero su cui sono disegnati occhi verdi, amico nell’infanzia, mescola con inquietudine il passato e il presente: il primo amore, il marito violento che ha voluto imprigionarla, la figlia Flavia, considerata da lui un peso, la fuga da un contesto asfissiante, il disprezzo della sorella, che ha vissuto di illusioni non meno della madre, decisa a farsi seppellire con l’abito da sposa per consacrarsi fino alla fine a chi non c’è più. Che l’oggetto apotropaico sia proprio un cero è beffardo: l’inquietudine del personaggio che si dice “sicura e orgogliosa” non conosce, in effetti, la luce della liberazione da un vissuto amaro e la lettera della madre al padre, che l’ha abbandonata per il sospetto che la seconda figlia non fosse sua, induce a una regressione. Con aria da bambina, l’interprete invoca Gesù per il ritorno del padre, scarabocchiando sul foglio, per poi maledirne la foto: è, infatti, colpevole di non averla portata con sé e di averla, quindi, privata di un’esistenza diversa. Gli elementi sul palco, infatti, alludono tutti alla perdita. Il proiettore che non mostra immagini rinvia a un legame che non è fiorito come avrebbe potuto, il telo bianco che s’innalza dopo la chiusura (fuori campo) della bara, lasciando scoperta una parete nera, esprime l’inabissarsi della figura in scena nella propria fanciullezza tradita e assetata d’amore. Reggendo in mano Oreste acceso, rifiuta di vedere per l’ultima volta chi l’ha generata e che le ripeteva sempre di averla trovata tra gli zingari. Mentre dice che non è sua madre e che l’ha trovata per strada, soffia sulla candela e scompare nel buio. La bambina ha voltato le spalle a chi non l’ha accolta, ma l’adulta, che ha creduto di diventare, non è giunta a soccorrerla. Certe catene non si spezzano.  

“Andromaca”, una parodia metateatrale

 

La sposa di Ettore potrebbe anche smetterla di affaticare le orecchie altrui con la stantia tiritera delle sue disgrazie. E che dire di quello “scornacchiato” di Menelao, che ha lasciato “l’armatura nel cellophane”, mentre i Greci trasformavano la nobile Troia in “una lettiera per gatti”? Se credete che nulla sia tanto importante da non poterne ridere, la compagnia I sacchi di sabbia fa al caso vostro. L’Andromaca di Euripide, proposta presso il Teatro Ghirelli, ha raccolto il favore del pubblico, colpito da una parodia metateatrale al servizio di attori rigorosamente consapevoli di quanto carisma richieda un divertissement. Nel testo euripideo, la protagonista si trova in una situazione a dir poco drammatica. Costretta a divenire la schiava di Neottolemo, il figlio di Achille recatosi a Delfi per scongiurare la vendetta del dio a seguito di un oltraggio, ha avuto da lui il figlio Molosso, scatenando la gelosia della legittima moglie Ermione sterile e tutt’altro che propensa all’idea che una schiava possa dominare il cuore del marito. Decide, dunque, di eliminarla con l’aiuto del padre Menelao e Andromaca, disperata, non si stacca dall’altare di Teti : è, infatti, un sacrilegio violare i supplici. Quando, però Menelao minaccia di morte Molosso, se la madre non si lascerà uccidere, la donna non può che cedere e solo l’intervento di Peleo e poi di Oreste potrà scongiurare il peggio. La messinscena, pur nella sua essenzialità, presenta una serie di sottigliezze. Mentre Gabriele Carli, Giovanni Guerrieri ed Enzo Iliano interpretano tutti i personaggi, spetta alla sola Giulia Gallo incarnare il coro con l’ironico pragmatismo di una massaia che la sa lunga: in effetti, nell’antica Grecia, l’elemento corale ha una sua stabilità, perché è lo sguardo della collettività sulla natura problematica degli avvenimenti. Che, quindi, sia proprio il coro a contribuire sistematicamente alla smitizzazione del testo rappresenta un capovolgimento quanto mai significativo. Lo smascheramento dei meccanismi teatrali (la forzatura di gesti e parole, il prolungare le pause, quasi a deridere la fissità che si attribuisce facilmente alla tragedia, le battute puntualmente presentate come tali) rende l’opera euripidea un pretesto di riflessione sull’assurdo dei comportamenti umani. Non compare l’altare di Teti, ma, provocatoriamente, una statuetta della Vergine : il carattere strumentale della religione, del resto, non è certo scomparso. Il pupazzetto che simboleggia Molosso è tormentato da una temibilissima caccola e usato per pulire i glutei: ogni nobile visione si ritrova calpestata, ma non è forse vero che gli esseri umani sono il giocattolo di forze oscure? Peleo apostrofa Menelao come nella più improbabile delle sceneggiate napoletane, senza lesinare parole a dir poco colorite. Eppure il senso dell’onore maschile, che si vede minacciato attraverso le disavventure della figura femminile, ancora ai nostri tempi, non è stato certo confinato definitivamente in soffitta. Quando l’ancella canta “Over the rainbow” nel momento in cui i personaggi, compresa lei stessa, si allontanano pacificati, il bersaglio è la facilità con cui ci si concentra sui propri egoismi. La morte di Neottolemo è narrata dal messaggero con il ritmo serrato di una cronaca sportiva, recuperando l’essenza del pensiero ellenico sulla fragilità che ci perseguita. Tutto questo, tra l’altro, non sarebbe mai successo, se una dea non avesse scatenato le invidie delle altre con una mela d’oro. “Gira e rigira, la colpa è sempre dei piani superiori”, dice la giovane e non si può che darle ragione.  L’Olimpo maligno della contemporaneità è molto più pericoloso di qualsiasi antica vendetta celeste. 

“I ragazzi irresistibili”, Branciaroli e Orsini tra ironia e amarezza

 


Provate a dare della vecchia gloria a Willy Clark : saprà seppellirvi all’istante con il suo sarcasmo affilato. Rassegnarsi al silenzio, in effetti, è esattamente quello che il vecchio cocciuto non intende fare, anche a costo di tornare alla ribalta al fianco di quella carogna di Al Lewis. Perfetto gioco interpretativo, “I ragazzi irresistibili” di Neil Simon, per la regia di Massimo Popolizio, ha concluso la stagione di prosa del Teatro Verdi di Salerno. Franco Branciaroli e Umberto Orsini, nei panni rispettivamente di Clark e Lewis, sono padroni del ritmo scenico, dosando con sagacia amarezza e ironia, disincanto e desiderio irrefrenabile di mettersi in gioco come ai tempi d’oro, quando il talento era sufficiente a fronteggiare isterismi e meschinità. Affiancati da interpreti che lasciano il segno (Flavio Francucci, Eros Pascale, Emanuela Saccardi, Chiara Stoppa), i due protagonisti offrono un ritratto al vetriolo delle manie e delle zone oscure tipiche di chi ha conosciuto una grande fama e non vuole cedere le armi all’ex compagno di trionfi. Come però accade, il vero nemico osserva dallo specchio: Al è davvero l’anaffettivo che ci viene descritto o è Willy che non si rassegna al suo temperamento? Quanto lo stesso Willy ha sacrificato e sa sacrificare alla causa comune, proprio mentre pretende di essere omaggiato come un imperatore? Il problema è rappresentato dalle bizze dei due o da un mondo dello spettacolo decisamente inaridito, che li rivuole insieme in un’atmosfera da revival, ma che appare anche funerea? Il ritorno alle scene si risolverà in un pasticcio, ma almeno i “ragazzi” sapranno riconoscersi e avvertire, nella malinconia dell’età, la possibilità di una vicinanza che non sia né alibi né ripiego. Essere sorpassati dai nuovi tempi non è affatto un destino crudele: permette di vedere le cose con una chiarezza che solo il palcoscenico sa donare.

“Magnifica presenza”, la finzione vera di Ferzan Ozpetek

 


Moltiplicare la visione, popolare l’attesa dello sguardo, dare ai corpi una nuova possibilità: è questo che fa il teatro e su questo Ferzan Ozpetek ha costruito il successo del suo film “Magnifica presenza”, diventato uno spettacolo particolarmente apprezzato dal pubblico del Massimo cittadino. La vicenda è nota: a dispetto delle rimostranze della cugina Maria, Pietro, che ha la passione della recitazione, si trasferisce in una casa a Roma e scoprirà che i fantasmi che la popolano sono attori vittime di un terribile segreto. Tutto nell’allestimento concorre a ricordare che la vita vera si gioca su di un palco. Nei momenti iniziali, le presenze dell’abitazione (gli affiatati Serra Yilmaz, Toni Fornari, Luciano Scarpa, Tina Agrippino, Sara Bosi, Fabio Zarrella) arrivano dalla platea: in quanto interpreti, infatti, avvertono l’esigenza di accostarsi al pubblico, a cui hanno dedicato le proprie energie, e dimostrano, in tal modo, che ciò che gli occhi colgono è solo una piccola parte della verità. Il piccolo schermo che mostra i dettagli del trucco, proiettati sulla volta del teatro, allude alla necessità di respirare una finzione non meno autentica del quotidiano. Che sia solo il protagonista a vedere gli attori (un Federico Cesari convincente nel suo appassionato candore) dimostra come li accomuni la persistenza del desiderio: il giovane coltiva ciò che ama, che sia l’arte o un rozzo amante che lo respinge; la compagnia è immobile per sempre nel debutto dello spettacolo “Sogno proibito”, che non ha luogo a causa dei nazifascisti giunti a stroncarla per il suo contributo alla resistenza. Il titolo della rappresentazione, tra l’altro, è ricollegabile alle vicende del protagonista, che ha, appunto, proibito a se stesso la felicità, quando gli è mancato il coraggio di soccorrere in mare il suo primo amore e che, nonostante i consigli degli spettri per affrontare un provino, si vede tagliato fuori dalla popolarità cinematografica nel rivelare fino in fondo la parte più vitale e spregiudicata di sé. La concretezza, infatti, non si accorda all’esuberanza di chi sogna, come mostra il rude richiamo alla realtà di Maria (una Tosca D’Aquino del tutto al proprio agio nel ruolo), ma talvolta ne subisce il fascino (di qui la danza di tutti gli interpreti). Se vivere è un allestimento teatrale, inoltre, tutto è duplice. È, in effetti, un travestito soccorso da Pietro a rivelare dove si trovi Livia Morosini, la traditrice del gruppo di artisti, che ha assunto il nome di Alice Tempesta, un personaggio delle loro commedie. La donna, dunque, pur tagliando i ponti col passato, ne porta addosso una traccia, unendo alla propria menzogna quella innocente della messinscena. Maria stessa sposerà il suo fidanzato incinta di un altro, restando quella di sempre e cambiando contemporaneamente. La “magnifica presenza” è un diamante donato da un gerarca a Livia e da lei cercato invano e comparirà nel lampadario in scena soltanto al saluto del cast agli spettatori, perché la doppia natura delle cose è ovunque. La scenografia, inoltre, prevede al centro un palco su cui grandi specchi permettono a chi osserva di riflettersi (in ogni senso possibile) in chi è osservato e ruoteranno,  quando un commosso Pietro assisterà a “Sogno proibito”. La vita può essere tradimento e inganno, ma il palcoscenico consola e soccorre con le sue ammalianti bugie. 

Hotel Paradiso, il silenzio d’oro dei Familie Floz

 


Che il teatro sia innanzitutto dinamica di corpi, gestualità polisemica è aspetto troppo spesso sottovalutato. A ricordarlo è il collettivo Familie Floz (Sebastian Kautz, Anna Kistel, Thomas Rascher, Frederik Rohn, Hajo Schüler, Michael Vogel e Nicolas Witte), che ha raccolto meritati applausi presso il Teatro Verdi di Salerno con “Hotel Paradiso”. Affidandosi a maschere che deformano in modo iperbolico i caratteri e a un dominio corporeo che ha dello stupefacente, tra acrobazie, gag, balli, accurati giochi di luci, gli interpreti tratteggiano i propri personaggi con una naturalezza e un rigore che rendono non solo superflua, ma inopportuna la parola. La complessità delle relazioni risulta, al tempo stesso, misteriosa e lampante nel modo in cui le figure dominano lo spazio. L’anziana che ha a cuore il proprio albergo almeno quanto il defunto marito, la cui immagine all’ingresso merita atteggiamenti reverenziali, è sì la fermezza fatta donna, ma è anche, a suo modo, una prigioniera del sogno, tanto da morire nel momento in cui la struttura viene declassata dall’insensibile ispettore di turno. Il giovane alla reception, che deve contrastare l’avida sorella, pronta a ristrutturare tutto in omaggio a un ego ingombrante, è un concentrato di passioni pronto a esplodere nel momento in cui s’innamora, ricambiato, di una cliente. Il cuoco armato di motosega, pronto a eliminare senza troppi crucci i cadaveri che gli piombano tra i piedi, è una sorta di genius loci, una presenza crudele e protettiva, senza la quale tuttavia non sarebbe possibile afferrare lo spirito di un contesto in cui tenerezza e ferocia diventano progressivamente indistinguibili. Se, infatti, è vero che tutti coloro che abitano la scena perdono progressivamente qualcosa (le illusioni, i desideri, la vita), un lirismo mai scontato giunge a stemperare il buio senza cancellarlo del tutto. La dinamica alto/basso, per cui, con un ascensore, il marito morto viene a condurre al suo fianco la moglie, per esempio, è molto più di un abile espediente: sta a indicare che un legame autentico esiste, ma in un altrove decisamente lontano dagli assurdi comportamenti umani. Quando resta la sola cameriera cleptomane a lanciare coriandoli che sembrano neve, mentre gli sposi nell’immagine appaiono ringiovaniti, anche lo spettatore più distratto capisce : sognare la vita dove ha prevalso la morte è il solo modo per regalarsi un nuovo inizio in un silenzio che è culla e tomba, dissoluzione e respiro.