mercoledì 3 aprile 2024

“Rubedo”, la ricerca di sé di un poeta ramingo

 Cosa fare quando il tempo stesso è una malattia e troppe volte si è giunti a tradire la propria identità? Donarsi un nuovo approdo rinunciando all’idea stessa di approdo. 

Complesso e seducente viaggio in ciò che si è e che si può essere, “Rubedo” è lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Giuseppe Affinito, che ha convinto gli spettatori del Teatro Ghirelli. Il titolo, che rievoca Margherite Yourcenar, indica, nella sapienza alchemica, la fase in cui i metalli si mutano in oro e, nella messinscena, tale momento corrisponde alla realizzazione del sé, allo scoprirsi creatura del mondo libera dai lacci delle categorizzazioni. Non si tratta, naturalmente, di un percorso né lineare né indolore, che deve iniziare dall’infanzia (la voce da bambino che canta Dove sta Zazà da una musicassetta) e dallo sdoppiamento (la voce registrata dello stesso Affinito adulto). Muoversi tra i ricordi, una stanza ingombra di oggetti che il protagonista esamina con una torcia, accendendo piccole luci una dopo l’altra, diventa un modo per fronteggiare i silenzi, “gli spazi bianchi affollati di cecità”, ed esaminare fino in fondo la sete dell’altro, che ha spesso condotto a chiedere aiuto a una “folla di casuali predatori” e a cercarsi negli sguardi degli estranei. L’attore adagia su una sedia i propri indumenti (presentarsi, inoltre, vestito di nero, di rosso e poi di bianco rifletterà la trasformazione di uno spirito in ciò che lo appaga), immaginando si tratti dell’ennesimo amante pronto ad andarsene senza lasciare traccia. Ed è in quel momento che occorre uno spregiudicato senso della realtà: con un mantello in testa, l’interprete diventa una sorta di madre-sorella, che lo rimprovera di essere “troppo insoddisfaziabile” nella sua ricerca di qualcuno che lo completi, quando gli esseri come lui sono per definizione “incompleti e incompletabili”. Eppure, mentre scrive brevi frasi sugli specchi in un diario frammentario ed evocativo, il giovane sa cosa desidera : essere un poeta, fare del linguaggio la propria casa, anche se rischia continuamente il crollo, come prova il sogno in cui restano solo “sparute rimembranze di voci”. Se, inoltre, le parole possono davvero tutto, diventano facilmente coltelli, come accade con i commenti di omofobi contrastati da una danza ironica, con tanto di corna fluorescenti su un tappeto di rose, sulle note di Sorry, i’m  a lady. “La parola è il mio cuore”, dice l’artista: attraverso di essa è possibile percorrere distanze impensabili, come quella che separa dalla propria essenza e in un tripudio di coriandoli bianchi, mentre bianchi lenzuoli coprono con affetto il contenuto della stanza (il colore della possibilità), il “ramingo cleptomane di desideri” comprende la necessità di “lasciarsi accadere”, di oltrepassare la linea dell’autodeterminazione. Quando afferma “Voglio scintillare nei miei occhi come il più prezioso dei metalli” o “Voglio lacerarmi in un grido che arrivi ovunque vi sia luce”, sta narrando il prodigio di divenire tempo, energia, fluire incondizionato di sensazioni. Non bisogna temere il buio abbagliante che si spalanca ai fragili sogni delle parole. 

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