Successo al Castello Fienga per "Il baciamano"
“A magnà giacubine nun se fa peccat, c’emm
nfurmat”. In quel mondo di corpi straziati e sognati che è “Il baciamano” di
Manlio Santanelli, l’assurdo diventa la norma e a essere cannibalizzata è anche
l’anima. Nello spettacolo diretto con successo da Antonio Grimaldi al Castello
Fienga di Nocera Inferiore, nell’ambito della manifestazione Centrale
dell’Arte, Janara, una popolana che può solo sognare una vita diversa tra
miserie e violenze (Annarita Vitolo, che regala al pubblico un personaggio più
vero del vero), si accinge a uccidere e cucinare un giacobino (l’intenso
Vincenzo Albano). La recitazione, giocata quasi interamente su tinte forti,
diventa a ogni passo più coinvolgente, senza cadere nella trappola di un
parossismo artificioso. L’essenzialità della scenografia riflette il deserto
che il fallimento della rivoluzione del 1799 lascia a Napoli: una cornice
impressa su di un tendaggio (la donna non ha sbocchi o prospettive) un tavolo,
un baule dove riporre quasi con amore i resti di altre vittime (un crudo
realismo assolutamente necessario dato il carattere del testo, che rende di
fatto la morte una pratica usuale), una bacinella e un coltello. Janara riduce
la sua esistenza a rabbia e istinto. La maschera di maiale che indossa a un
certo punto della messinscena, così come la cupa fiaba di Ficuciell, sono
chiari riferimenti a quel bisogno di sopraffazione che diventa naturale come
respirare. Il prigioniero, che non rinuncia al suo linguaggio forbito, cerca di
suscitare in lei umanità ed ecco che si scoprono più vicini di quanto non
appaia. Sono entrambi vittime di un mondo che non si volta a guardare chi
calpesta e quando Janara confessa di aver sempre desiderato un gesto
delicatamente aristocratico, il baciamano, i due inscenano questo rito, quasi a
voler cancellare per un momento ogni barbarie. E come la popolana si percepisce
finalmente persona e non più semplice corpo, così il giacobino sta per cedere
alla stessa violenza che l’ha condotto alla fine. Sarà il pensiero dell’amato
compagno morto e il fortissimo senso di lealtà a impedirgli di diventare a sua
volta un omicida, per quanto il motivo più vero consista nel leggere in Janara
la sua stessa fragilità, la stessa sconfitta del proprio bisogno di felicità. I
protagonisti non sfuggiranno a ciò che li aspetta. Quella della lazzara è una
discesa nel buio, ma almeno questo buio non è privo della forza malata del
desiderio.
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