mercoledì 27 marzo 2013

Antigone, quanta luce in quel buio


Il buio appare impenetrabile, assoluto, fino a  quando una donna in abito rosso è lentamente calata dall’alto. China su quell’oscurità al di fuori dello spazio e del tempo, ripete come una formula antica nomi di farmaci, prima che il suo sguardo dolente e fermo campeggi sullo sfondo. L’ “Antigone” diretta da Luca De Fusco su testo di Valeria Parrella, dove Gaia Aprea trova un miracoloso equilibrio tra rigore e intensità, si nutre di un conflitto che si amplia fino a divenire totalizzante. Il fratello a  cui rendere onore non è un cadavere insepolto, anzi sì: è in coma vegetativo da tredici anni, una non vita che il Legislatore, a cui Paolo Serra offre il suo volto duro come l’acciaio (non ha senso dargli un nome, la norma livella ogni cosa), tutela implacabilmente. Nelle scene di Maurizio Balò, le tenebre rappresentano il coma di Polinice che imprigiona la protagonista come la stessa Tebe, piombata nel sonno oscuro del rifiuto di ogni visione critica. Non è un caso che Ismene, incarnazione del senso comune che basta comunque a se stesso, non appaia mai sul palco né risponda ad Antigone che le parla. Da quel fondale di piombo emergono come da un pozzo i due corifei (Giacinto Palmarin e Dalal Suleiman), che non possono più indicare una strada come accadeva nella tragedia classica, ma solo vivere l’ansiosa ricerca di un senso che si opponga al nulla. Attraverso dei video i volti in bianco e nero di tutti i protagonisti s’impongono alla vista, senza riuscire quasi mai a intercettare l’uno gli occhi dell’altro (tranne nello scontro tra la figlia di Edipo e suo zio), isolati nella manifestazione della propria personalità anche su piani differenti, senza possibilità di un vero dialogo. L’unico antidoto all’omologazione del pensiero è la complessità. Antigone evidenzia come il suo avversario difenda la morte e non la vita, come crede, e Tiresia (Anita Bartolucci) è interpretato da una donna perché l’esistenza è un gioco irrisolto di opposti. Il viso del Legislatore appare rimpicciolito quando emerge quello dell’indovino, perché lo costringe a incrinare la solidità delle sue certezze e i corifei non possono non essere due, perché la verità, ammesso che esista, non ha meno di due facce. È significativo che Antigone divida la cella con una madre, altro esempio di vita negata offerto da Nunzia Schiano, scontando una reclusione non meno opprimente di quella in cui Polinice si trova. Ne uscirà con il suicidio, trascinata verso l’alto con un movimento opposto a quello iniziale. Avevano probabilmente ragione gli antichi: “forse il nostro vivere è un morire e il morire un vivere laggiù”.     

2 commenti:

  1. E' una riscrittura davvero riuscitissima: un classico è tale se conserva la sua forza in epoche lontane da quella in cui è stato scritto. L'idea di sostituire il problema originario, quello di un cadavere insepolto secondo i greci antichi, con quello di un "sepolto vivo" riesce nello stesso tempo a conservare la forza del dilemma di Antigone e a parlare del presente, delle nuove frontiere dell'etica e dei diritti.

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  2. E'vero e la Parrella è stata abilissima nell'adottare un linguaggio così avvincente. Rimane un senso di grande dolore, perchè comunque la protagonista si libera solo con la morte.

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