mercoledì 20 marzo 2013

Ruccello, l’arte della crudeltà

Un banco di prova del talento di uno scrittore? La crudeltà, l’arte sottile di fare a pezzi ciò che appare prezioso. Annibale Ruccello resta un genio indiscusso in questo campo e la regia di Arturo Cirillo in “Ferdinando”, che lo vede nei panni di Don Catello, asseconda in pieno questa predisposizione. La nobildonna Clotilde (una Sabrina Scuccimarra caustica e volitiva), sua cugina Gesualda (Monica Piseddu, che non le è da meno nella torbida determinazione a perseguire i suoi obiettivi) e il sacerdote avido e lascivo falliscono tutti nel tentativo di sopraffarsi a vicenda, perché vittime di se stessi. Soggiogati dal bisogno di possedere il giovane ospite (un Nino Bruno nel quale Cirillo evidenzia nettamente l’aspetto fanciullesco per rendere ancora più intenso lo smacco finale), si scoprono burattini nelle mani di chi riflette la loro cupidigia. Tutti sono pronti a sacrificare tutto alla propria meta e in un autentico contrappasso corrodono gli ambigui equilibri che li uniscono, rendendo il ragazzo ago della bilancia, come mostrano i raffinati raccordi tra diversi momenti narrativi: il prete offre gli abiti al “nipote” di Clotilde, nudo dopo la seduzione, con la lenta cura dell’officiante e le due donne che lo vegliano ai lati del letto appaiono il capovolgimento di due immagini sacre. E poiché la vera crudeltà attinge anche al grottesco, la comparsa finale di Ferdinando travestito da angelo, come previsto dalla recita natalizia, ha il sapore di un amaro redde rationem: un emissario celeste non venuto per portare nuova luce (la polemica contro la religione come rito sterile e ipocrita attraversa l’intera opera: si ricordi che nell’assaporare il corpo di Gesualda, Catello continua a reggere tra le dita il breviario), ma per inchiodare al buio dell’aridità le due protagoniste. È appena il caso di ricordare come dietro questo avventuriero si nasconda la nuova Italia che di nuovo ha ben poco. Dall’egoismo non nasce che egoismo. La baronessa e la cugina non potranno fare altro che perpetuare il rito della serva e della padrona, cercando l’una nell’altra la propria essenza. E tutto questo per uno che non si chiamava neppure Ferdinando.

4 commenti:

  1. Mi sembra che, dopo tutto, le due protagoniste pervengano a una maturazione e che la storia approdi a una conclusione positiva, sebbene amara: riconoscono i propri errori, sono consapevoli di aver pagato per le proprie colpe e soprattutto si liberano di tutto ciò che le rendeva corrotte, Don Catello, "Ferdinando" e il tesoretto custodito indebitamente.

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  2. Che ci sia una consapevolezza maggiore rispetto all'inizio della rappresentazione è innegabile. Bisogna però ricordare che scelgono di fossilizzarsi nel luogo delle loro vicissitudioni, senza reali aperture dialogiche. Penso che più, che divenire migliori, siano semplicemnte più lucide.

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  3. Non posso che essere d'accordo. Il finale resta amaro, anche se la risata liberatoria di Clotilde a conclusione della vicenda esorcizza il malessere di corpi che avrebbero voluto essere finalmente visti anche come anime.

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