sabato 18 maggio 2013

Il teatro coraggioso di Francesco Silvestri



Come combattere un dolore che divora la mente e il corpo? Con un amore tanto esclusivo da diventare una consacrazione. Non fatevi ingannare: l’enfasi e la commozione a buon mercato sono lontane anni luce dal teatro di Francesco Silvestri, che interpreterà fino al 19 maggio presso l’ex Chiesa SS Nicolò ed Erasmo di Modica Alta,sede dell'Accademia Teatrale Clarence, “Fratellini” con Vincenzo Tumino. La performance di Silvestri nel ruolo di Gildo toglie il respiro per la sua capacità di coinvolgimento, ma Tumino non gli è da meno nel suo dolente controcanto fatto di sguardi disperati e affettuosi e di parole ridotte all’osso. Con il pretesto di recarsi ogni giorno a messa, Gildo, che ha un lieve ritardo mentale, accudisce il fratello malato di aids e di fatto recluso in una stanza d’ospedale dove neppure le suore osano avvicinarsi, abbandonato dalla madre stessa, che è nominata con disagio ed è a sua volta prigioniera, murata nel suo aggressivo dolore. La solitudine si avverte fin dall’inizio della rappresentazione, quando riecheggiano per pochi istanti mille voci lontane di quella distratta e confusa quotidianità che esclude il giovane. Poiché il protagonista ha solo il tempo della celebrazione eucaristica per stare con il suo amato “fratellino” (che senso avrebbe dargli un nome? È una parte di lui), inframmezza i suoi discorsi con le parole del sacerdote per sapere quanto possa ancora trattenersi in ospedale. Gli racconta fiabe, impressioni, lo incoraggia, muove un aquilone sulla sua testa per inventare una libertà che gli è negata, rivendica il suo diritto ad accoglierlo, comprenderlo, difenderlo, esorcizzare la morte, leggendo per esempio nelle macchie sul suo corpo figure sempre diverse, come in un gioco tenero. Lo spoglia completamente e lo lava, nominando il corpo di Cristo (la nudità ricorda che è il rifiuto della carne a essere folle) e mostrando una volta di più che è la vita in se stessa a essere sacra. Il rituale amoroso di Gildo vale più di ogni messa e di ogni pregiudizio. L’uno è spazio e tempo dell’altro. E quando il fratello lo invoca con forza nel finale, come trascinato lontano dall’aquilone in una prefigurazione della sua fine, esplode il bisogno di anteporre il sogno e il desiderio a una realtà che è già morta, chiusa a chiave nella sua cecità come una madre che, a differenza del pazzo Gildo, sceglie di essere tomba e non più occasione di vita.

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