mercoledì 3 aprile 2024

“Con il vostro irridente silenzio”, la grande prova di Fabrizio Gifuni

 

È fin troppo facile affermare che “Il passato è un secchio di cenere”. Ciò che è sepolto, in realtà, non è mai abbastanza lontano; non quanto vorrebbe la cattiva coscienza. “Con il vostro irridente silenzio”, di cui il protagonista Fabrizio Gifuni ha curato anche l’ideazione e la drammaturgia, ricostruisce i cinquantacinque giorni di prigionia di Aldo Moro attraverso le lettere e il memoriale di quest’ultimo nello spettacolo applaudito presso il Teatro Verdi. Prima di calarsi nei panni dello statista, l’interprete offre al pubblico le coordinate per ricordare o conoscere gli eventi legati al rapimento, tra cui la perquisizione del covo brigatista di Via Monte Nevoso, nell’ottobre 1978, da parte dei nuclei speciali guidati dal generale Dalla Chiesa, che porta alla luce soltanto 78 pagine (fotocopie di dattiloscritti) e il casuale ritrovamento, in quello stesso appartamento nel 1990, di oltre quattrocento fogli, armi, munizioni. Quella che potrebbe apparire una premessa didascalica è, al contrario, coerente con lo spirito della messinscena. Rendere, infatti, il più possibile chiara la travagliata ricostruzione degli scritti di Moro, censurati dalle Brigate Rosse, che ne hanno distrutto gli originali, appare naturale per chi vuole ridare voce a un uomo vittima dei cosiddetti compagni di viaggio più ancora dei propri assassini. Il prigioniero, in effetti, viene sistematicamente presentato come folle, manipolabile, psicologicamente fragile e dunque inaffidabile per togliere qualunque credibilità a un individuo lucidissimo e scomodo, a cui non si perdona né l’etica né la lungimirante visione del quadro politico non solo italiano. Le carte del Presidente della Democrazia Cristiana, inoltre, racchiudono spesso riferimenti precisi: l’albergo Minerva rimanda al nome di un funzionario dei servizi segreti legato alla questione israelo-palestinese; quando scrive a Cossiga di essere “sotto un dominio pieno e incontrollato”, potrebbe alludere a un condominio; non si può escludere che la spiaggia citata nella missiva al nipotino Luca indichi uno dei covi in cui è stato nascosto. Se, dunque, Moro è stato colpito nelle sue parole, proprio da esse occorre ripartire per fendere il buio di omissioni, intrighi, ostilità creato in nome di un’ipocrita inflessibilità, “questo rigore proprio in un Paese scombinato come l’Italia”. Per restituire tutta la forza e l’umanità del personaggio, l’attore ricorre a una scenografia essenziale: una pedana leggermente inclinata, disseminata di fogli, e una piccola scrivania su cui si rannicchierà, evocando il ritrovamento del corpo in via Caetani. La farina, che raccoglie prima di iniziare a parlare, è associabile a differenti significati: dissoluzione, memoria, riconoscibilità. Il corpo di Gifuni, anche se fermo in una sola posizione, comunica una tensione continua, perché si può imprigionare un individuo, ma non il suo pensiero. La voce restituisce concretezza a ogni stato d’animo del protagonista, muovendosi tra severità, ironia, accorata amarezza, amore infinito per i cari lontani. Quando è il momento di interpretare il memoriale, si ha uno scarto nel timbro e nella postura, perché è in gioco il ruolo pubblico di Moro dinanzi al tribunale rivoluzionario e in quel momento si evidenzia in modo ancora più lampante un’esemplare onestà intellettuale: la pista nera di Piazza Fontana, le malsane connivenze delle Democrazia Cristiana, le oligarchie annidate nel tessuto democratico sono tutte analizzate con tagliente esattezza. Anche il ritratto degli altri politici è tratteggiato con implacabile acume: Andreotti “regista freddo.. senza mai un momento di pietà umana”, il “pencolante” Zaccagnini, i democristiani preoccupati dai voti, non certo dalla lealtà. L’immagine delle autorità presenti al funerale dello statista compare solo per pochi attimi. Quei volti falsamente contriti sono, malgrado tutto, i veri fantasmi, i veri cadaveri. Moro non è un fotogramma sbiadito: è il monito a capire che siamo tutti in pericolo, quando la democrazia diventa uno spettro.

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