sabato 5 ottobre 2013

“…E poi sono morto”, la drammaturgia di Francesco Silvestri nel libro di Vincenzo Albano



“Se non c’è un elemento dissonante e visionario nei miei testi, non riesco a riconoscermi, è come se non mi appartenessero”. Oscilla tra il sogno –fragile difesa contro la sofferenza- e la disarmonia –ciò che incrina e sfalda la cosiddetta normalità-  il percorso dell’attore, scrittore e regista Francesco Silvestri che Vincenzo Albano, fondatore dell’associazione culturale Erre Teatro, ricostruisce e analizza in “…E poi sono morto. La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri” (Libreria Dante & Descartes). Il volume, corredato dalla introduzione del giornalista e critico teatrale Paolo Petroni e dalla postfazione di Antonia Lezza, docente di Letteratura Italiana e Letteratura Teatrale Italiana dell’Università di Salerno, fa parte della collana di Quaderni sul Teatro dell’Associazione Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo. Albano, che ha dedicato all’artista la prima edizione a Salerno di Teatrografie, prende le mosse da “Piume”, finalista nel 2001 al Premio Ater Riccione e qui pubblicato per la prima volta, ultimo testo di Silvestri da ogni punto di vista, poichè rappresenta la summa del suo mondo drammaturgico. Se, come dice Bontempelli, “pubblicare è come seppellire”, visto che la scrittura è un dato definitivo a meno che l’autore non scompagini le carte, in quell’ambiguo teorema della mancanza che è “Piume” lo scrittore ha proiettato le proprie tensioni in modo così assoluto e profondo da non potersi spingere oltre, sancendo, per così dire, la propria morte, ovvero il proprio silenzio. Interrogando questa assenza, Albano entra nell’immaginario di Silvestri attraverso un appassionato studio dei suoi testi che permette allo specialista come al lettore comune di coglierne affinità e peculiarità. Ogni copione rivela a suo modo la versatilità espressiva che rende feconda la lingua dell’autore, che spazia con la stessa freschezza dal dialetto più aggressivo al registro più sofisticato, e in tutti si coglie una marginalità intesa come redde rationem di forze in contrasto e luogo in cui coltivare un’impossibile felicità. La donna di “Mon enfant” che crea un dialogo fittizio col suo amante assente, Edoardo e Antonio che in “Saro e la rosa” tramano per avere un figlio proprio, la “stoltezza patentata” del protagonista ne “La guerra di Martin” che illumina l’idiozia autentica delle armi, l’amoroso Gildo che veglia sul fratello, entrambi fuori posto perché l’uno è ritardato e l’altro malato di aids in “Fratellini”, sono tutte immagini di un’incompletezza che non si rassegna, malgrado tutto, a non desiderare quella pace che resta un’illusione.

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