mercoledì 13 agosto 2025

L’affascinante Circe di Anna Rita Vitolo

 

Seduttrice infida, perfida manipolatrice, rovinosa nel suo fascino. Facile attribuire alla maga di Eea epiteti tutt’altro che lusinghieri, ma la verità ama nascondersi e neppure l’immortalità salva dalla ferita della perdita. Protagonista, con il collettivo Grimaldello, di “Porco. Ulisse incontra Circe” per la regia di Antonio Grimaldi, spettacolo che ha aperto il Barbuti Festival, Anna Rita Vitolo ha ottenuto il Premio Natella alla presenza del delegato alla cultura Ermanno Guerra e del consigliere regionale Franco Picarone nella serata condotta da Paolo Romano e. Gilda Ricci. In un’interpretazione appassionata e coinvolgente, in cui sarcasmo, dolore e sensualità obbediscono comunque a un accorto senso della misura, la Circe della Vitolo incarna perfettamente la drammaturgia di Elvira Buonocore, che, pur ispirandosi liberamente a Joyce e Miller, trova la propria cifra in una scrittura tagliente ed evocativa, in cui declinare con notevole sensibilità il perturbante da sempre associato al femminile. È significativo che nessuna delle figure maschili, neppure il protagonista dal multiforme ingegno, pronunci mai una parola: in opposizione alla scelta dell’uomo di essere l’unico artefice delle cose, la scena ha il proprio perno nella maga e nelle sue ancelle/sorelle, che condividono con lei il destino di approdo e, al tempo stesso, di lontananza da coordinate sicure, visto che “nessun uomo è un’isola, ma la donna sì” e l’incantatrice sa di essere “piena di crepe e di anfratti da esplorare”. Circe è estranea per natura a tutto ciò che è considerato razionalmente legittimo: è “l’ennesima donna venuta ad ammorbarci la vita”, i suoi occhi “gialli come il piscio” non lasciano dormire, è la “menomata” che sembra sfuggire a ogni aura divina e anche per questo conosce la violenza. Le donne, che attorno a lei si contorcono al ricordo dell’arrivo di una nave, alludono chiaramente a uno stupro: la regia di Grimaldi, infatti, amplia le sensazioni attraverso un capillare lavoro sulla corporeità che unisce nello stesso afflato o separa nettamente gli interpreti. Nel regno muliebre di Circe, il diritto alla diversità va difeso soggiogando chi non è in grado di comprenderlo appieno (gli uomini che giungono dal fondo della platea in marcia, perché è chiesto loro da sempre di combattere e dominare) e i coltelli delle compagne che affondano nell’anguria simboleggiano l’urgenza di trasformare il desiderio in un’arma. L’opera di seduzione avviene come se ci si trovasse in un bordello d’altri tempi, tra tavolini e bicchieri di vino, dato che l’abbandono alle proprie pulsioni appartiene a ogni epoca, e i maschi che si ritrovano a quattro zampe con una maschera da maiale ad addentare le mele lanciate da Circe si sporgono, come in un trogolo, sul limite del palco a ricordare agli spettatori quanto sia facile precipitare nel degrado. È lei stessa a ricordare come la natura sia inaggirabile: “Si diventa ciò che si è: porci, puttane di mare”. La maschera che la figura principale indossa sulla propria nuca e che non sfigurerebbe in un teatro orientale dimostra come la conoscitrice di incantesimi sia figura trasversale a ogni immaginario, ribadisce il potere, proprio del teatro, di trasformare il reale e cela la natura della dea, che muove come pedine le sue vittime, forte del carisma, per non cedere terreno in un mondo basato sul sopruso e sul rifiuto di ciò che sfugge a comode categorie. L’antico inganno, però, ovvero l’amore, è più forte di ogni magia, quella stessa magia presentata come un lavoro ingrato, gravoso, perché è via per costruire a fatica un’identità non addomesticabile. Quando Ulisse compare in scena, il cuore vacilla : “Sei una lama affilata – gli dice- Dammi qualcosa per cui valga la pena sanguinare”. La danza di attori e attrici sulle note di “Il cielo in una stanza”, dove significativamente gli uomini non indossano più la maschera di porci, liberi per un momento di essere e non di strumentalizzare, è un momento tenero e beffardo: non una banale metafora del bisogno di fondersi all’altro per ritrovarsi, ma un tentativo di prolungare lo squisito tormento di sapersi in due, malgrado tutto. La solitudine, tuttavia, è il destino di Circe: il re di Itaca ha colto la sua anima solo per poi restituirgliela. Un ego troppo ingombrante, evidentemente, per accogliere una creatura che nasconde tenerezza e dedizione dietro le sue temibili arti. Alla dea non resta che tornare a essere isola, sognando che il buio della propria interiorità non resti ancora inascoltato.


“Strada maestra”, il legame tra uomo e natura

 Fare a meno del giudizio e dell’io. Aprire i sensi a qualsiasi percezione, lasciandosi attraversare in silenzio da tutto ciò che venga intercettato. Limitarsi a un’osservazione oggettiva. È questo che hanno chiesto

Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich , autori e interpreti di “Strada maestra”, al pubblico del Piccolo Teatro del Giullare, accompagnandolo in una camminata nei pressi dell’edificio per poi, al ritorno in sala, condividere con gli spettatori il risultato della loro “relazione”. È il principio dell’ultima tappa di Mutaverso, il percorso artistico curato da Vincenzo Albano, che ha raccolto un ampio successo di critica e pubblico. Un gruppo di persone che osserva silenziosamente tutto, ma non il cellulare, rappresenta già una massa critica, secondo i due artisti, e i luoghi brevemente visitati saranno, nel finale, oggetto di una felice profezia: nel 2125, la plastica sarà catalogata come materiale raro, piazza San Francesco vedrà lo spaccio di idee, la disciplina principale studiata al Liceo Tasso sarà l’utopia. Non è, tuttavia, una fuga nel sogno quella proposta dallo spettacolo, frutto del progetto di ricerca Terramadre, ma una riflessione sul legame tra uomo e natura, che induce a leggere nello spazio della nostra vita il legame tra uno e molteplice, tra individuo e ambiente, ponendo in una luce problematica il peso –troppo spesso trascurato o svilito- di tutto quello che non si riconosce nell’artificiale. La narrazione, quindi, riassume gli incontri e le scoperte con differenti realtà legate alla terra e i cui oggetti-ricordo vanno a comporre un totem che accoglierà in sé l’idea dell’essere futuro, una figura di confine tra passato e avvenire. “Un’operazione semplice non vuol dire facile – hanno dichiarato al giornalista Michele di Donato i protagonisti nell’incontro successivo alla messinscena, annunciando il loro prossimo obiettivo, “Vecchietti”, sulle risorse della mezza età –Il nostro itinerario ha comunque contemplato anche il fallimento e l’amarezza, ma, non essendo teatranti nel senso canonico del termine, abbiamo scelto di porci al servizio della scrittura, che ha riflettuto, appunto le nostre esperienze”. Occorre innanzitutto abbandonare “il proprio metro quadro”, l’ambito delle certezze, dei ricordi e delle paure, simbolizzato da quattro rami che diventano confini da varcare e che confluiranno nel totem costruito passo dopo passo. Nell’esaminare contesti differenti nel presente e in prospettiva, quindi, dove l’osservazione oggettiva non è mai asettica, ma è pieno ascolto della diversità, Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich registrano da ogni punto di vista la relazione tra il singolo e la propria terra. A Crevalcore, per esempio, Maria ha un’azienda biologica, ma le seimila galline stipate all’inverosimile contraddicono la sua visione del naturale. Paolo, veterinario che nutre amorevolmente una nutria con le pere, cederebbe volentieri il bosco non suo a chi lo curasse per i prossimi quattromila anni ed è proprio un alkekengi di quel bosco a essere messo in palio tra gli spettatori, che se lo devono guadagnare a suon di empatia e non di soldi. Ad Amelia, in Umbria, Sandro, col suo grembiule da macellaio sporco di sangue, ha paura del futuro. Ad Anzino, sulle Alpi, Michele si prende in giro e dimentica di essere spastico quando ha il sole sulla pelle e Roberta, che li guida nel caotico giardino che le fa compagnia, li riempie di doni di ogni tipo, perché non ha nessuno a cui lasciarli quando morirà. Si giunge poi a Taranto, dove “il drago dal fiato velenoso la tiene sotto scacco e un giorno la divorerà o sarà divorato”; qui un uomo scheletrico fa guerra alla Coca Cola. Mille Italie si susseguono in un racconto lirico e concreto, struggente e sincero, perché innumerevoli sono gli occhi da puntare sulla natura, anche quando sembrano ciechi, ed è ancora il pubblico a schierarsi quando si immagina un confronto tra essa e l’uomo: la prima gli rimprovera di annegare nell’egocentrismo, di regalarsi ogni sorta di malessere nel momento in cui si allontana dal tutto, il secondo si considera l’unico in grado di legittimarne l’esistenza. Appare, dunque, coerente la scelta di immaginare un futuro armonioso nello spazio in cui tutti si sono mossi all’inizio. Qualsiasi cambiamento parte da ciò che si ha sotto gli occhi e che deve essere concepito come possibilità, non come mero sfondo della propria esistenza. Spetta a ognuno di noi decidere in che misura la dimensione naturale ci appartenga, quale confine scegliere tra il proprio individualismo e ciò che si squaderna tutto intorno. Nei sentieri percorsi, Laura sa di aver ritrovato il pino sotto il quale il padre voleva essere sepolto e Niccolò ha riprovato, almeno per un momento, il brivido di quando, bambino, si fermava ad ascoltare il respiro del bosco. La strada maestra è probabilmente un’utopia, più che un obiettivo, date le contraddizioni degli esseri umani, ma conta sapere che un nuovo inizio può sorgere proprio lì, tra quegli alberi sotto i quali camminiamo distratti.

“Era ottobre”, un’anima divisa in due

 

Una panchina, due anziani, chiacchiere e popcorn. Nulla di più ordinario, si potrebbe dire, ma è proprio in ciò che passa inosservato che si annidano pensieri ed emozioni a ricordarci di essere vivi. Interamente giocato su un’intensa essenzialità, ben lontano da qualunque retorica e dal ricatto psicologico, “Era ottobre”, proposto dalla compagnia Teatro Pubblico incanto, è lo spettacolo, scritto, diretto e interpretato da Tino Caspanello al fianco di Tino Calabrò, su scena e costumi di Cinzia Muscolino, che ha convinto il pubblico del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno nell’ambito di Mutaverso, il progetto culturale, che ha in Vincenzo Albano il proprio direttore artistico. Come affermato da uno dei due in scena, che non hanno un nome perché, malgrado tutto, si riconoscono l’uno nell’altro, proprio come lo spettatore si riflette gradualmente in essi, i protagonisti sono “vecchie monete fuori corso che nessuno vuole più”. Osservano, dunque, se stessi e la realtà circostante da una prospettiva marginale, aspetto in cui il regista si riconosce appieno. “L’attenzione alla marginalità è per me una costante – ha affermato Caspanello nell’incontro con il pubblico seguito all’allestimento- perché noi tutti viviamo in un margine, esattamente come la Sicilia che, alla periferia dell’impero, consente nuovi modi di approcciarsi a ciò che ci circonda. Mi viene in mente una parola presente nelle Troiane di Euripide, teikoscopia, cioè osservare dall’alto delle mura: essere dentro un contesto, ma spingere il proprio sguardo in base a una posizione privilegiata. Oggi si chiede a tutti i costi di produrre senso, anche al teatro, per essere collocabili in una categoria e opporsi a questo diviene significativo”. Come sempre accade quando esiste un’affinità profonda, non mancano contrasti, incomprensioni, difficoltà. Il personaggio che attende l’arrivo dell’altro gli rimprovera il ritardo accumulato anche nei giorni precedenti, lo mette in guardia dalle paranoie tipiche dell’età, critica le sue debolezze, mentre il suo interlocutore, che sembra più disponibile al dialogo, non si scoraggia né nel cercare un’intesa né nel sottolineare quel che possa infastidirlo. Nell’economia di gesti e parole, in una mimica che corre fino in fondo il rischio di accogliere diverse interpretazioni, nel dare corpo ai silenzi evitando con cura la commozione facile, i due oscillano tra distanza e vicinanza, tra solitudine ed empatia per difendere quel che resta della loro umanità in un mondo arido e sordo. Costruire un rapporto che sappia resistere a tutto, alla tentazione di fuggire come all’omologazione, è una strada accidentata in cui è facile ritrovarsi in uno stallo. È allora che uno sguardo, una risata, un tenue avvicinarsi può sradicare la frustrazione di sapersi fuori tempo, dimenticati da uno scenario volutamente indefinito, ma non per questo meno spietato, che i vecchi hanno visto ampliarsi a dismisura e da cui non vogliono farsi inghiottire. Non mancano i momenti ironici, come i popcorn inizialmente gettati in terra per dispetto e poi rimessi nel sacchetto e inavvertitamente mangiati da un personaggio, che già si vede in un letto di ospedale, mentre l’altro, mangiandoli a propria volta, fantastica sulla possibilità che dividano la stessa camera, magari morendo assieme. Il legame esclusivo di chi vede nell’altro un’occasione di dar senso ai propri giorni rende naturali le ellissi del racconto. L’amico ritardatario ha dimenticato un importante anniversario che non viene mai chiarito. Ha, inoltre, subito il trauma della perdita di una donna su cui non viene fatta chiarezza, lasciando indistinte le responsabilità. L’uomo ossessionato dal tempo (può dire con esattezza millimetrica da quanto si incontrano) e che afferma di aver avuto gli occhi sempre aperti, senza concedersi la possibilità di un sogno, un lusso che la vita non offre, rivela la propria natura di fraterno custode dell’equilibrio dell’altro, talmente confinato in se stesso dopo l’abbandono della misteriosa figura femminile da non mettere il naso fuori casa e costringerlo a osservarlo da un albergo equivoco di fronte all’abitazione, vegliando su ogni suo gesto. Quando, nel mese di ottobre, ha finto di incontrarlo e hanno bevuto insieme, il “sorvegliato” ha proposto di non lasciarsi più e di trascorrere insieme un’ora al giorno, fino alla morte. La pessima qualità del vino che avrebbe ispirato il patto è uno scherzoso antidoto al groppo in gola che è prevedibile avvertire a questo punto. Ecco allora che l’attenzione continua ai minuti condivisi non è una mania: è l’urgenza di sottrarsi al nulla, di affrontarlo come –dicono- gli uccelli migratori che si trovano sullo stesso filo per poi non vedersi mai più. E quando questo accadrà, né lacrime, né patemi, ma un ultimo brindisi di chi aspetterà invano il compagno. Un attimo prima del buio, uno allaccia in silenzio le scarpe all’altro con inaspettata tenerezza. Nessun momento è inutile, nessuna sensazione si è nascosta invano dietro i dialoghi: è il privilegio di essere fragili e soli. 

“Con tanto amore, Mario”, la tragicommedia di un uomo comune

 


Lo si vede in mezzo agli spettatori che attendono di prendere posto, mentre dal palco risuona il rumore del mare, e si accomoda in platea, come se a sua volta attendesse quel che accadrà in scena. Un inizio coerente con lo spirito dell’opera: chi può confondersi tra gli altri più facilmente di un uomo comune, per quanto buffo, con quei movimenti che ricordano talvolta il cinema muto? Eppure il più vivo tumulto di pensieri ed emozioni si annida proprio nella misconosciuta vita ordinaria. Notevole prova interpretativa di Paola Tintinelli, “Con tanto amore, Mario”, una produzione Astorri Tintinelli, è lo spettacolo che ha raccolto meritati applausi presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno nell’ambito di Mutaverso, il progetto artistico curato da Vincenzo Albano. Come ha spiegato la protagonista nell’incontro con il pubblico coordinato dal giornalista Michele Di Donato, il titolo è un omaggio a una canzone di Mario Abbate, che infatti sottolinea a più riprese la malinconia e il desiderio di una vita diversa nel suo alter ego, oltre che una chiara allusione al “Mario” di Enzo Jannacci, sulla cui traccia è costruito un personaggio indifeso e sensibile come quello del grande artista milanese. Le parole del testo sono, in effetti, la migliore fotografia della messinscena: “Mario, io ti vedo alle sei di mattina girare/te e la tua bicicletta/Mario, due speranze nel cuore, un po’ di giardino/un sogno la tua casetta/alla sera ti fermi nel bar qui vicino giusto per bere un bicchiere/e nel bianco degli occhi nel rosso del vino/muoiono le sere”. È rilevante che proprio da suggestioni musicali nasca una performance interamente affidata alla mimica e alla gestualità. Se, infatti, la musica, arte evocativa per antonomasia, sfugge a comode categorie, il mistero che si cela in fondo a un’esistenza non può essere catturato dalle parole. Nella fase iniziale dell’azione, Mario, postino dedito alla propria occupazione, pesca e delimita con il nastro adesivo la propria casa. Nulla manca al tranquillo quadretto: lo zerbino, la cassetta per le lettere, il nano da giardino. Dopotutto, ognuno ha diritto al proprio microcosmo, ma nessuno spazio è immune dall’inquietudine. I timbri apposti selvaggiamente sulle cartoline, il minaccioso gracchiare degli uccelli mentre consegna la posta, la cura meticolosa con cui si nutre e vorrebbe esorcizzare la propria solitudine, offrendo anche al pubblico un po’ di cibo con una forchetta allungabile, sono tutti indizi di un’anima su cui incombe qualcosa che non si può rinchiudere nell’armadio d’acciaio da cui tira fuori tutti gli oggetti con cui interagisce. Si tratta di un condizionamento plumbeo dello spirito (non si fa fatica a immaginare un contesto dittatoriale), che proviene da un altoparlante legato a un lampione, a cui è collegato anche uno specchio stradale. Ciò che viene divulgato, in effetti, deve essere una guida al pari della luce nella notte e lo specchio è un incoraggiamento a guardarsi le spalle, perché uno sguardo dinanzi a sé significherebbe opportunità e, quindi, evasione da uno schema. Le comunicazioni dell’altoparlante mortificano ogni slancio. Viene data notizia di perturbazioni: il cirrus suicidatus, che fa gravare sulla nazione una nera malinconia, dove il canto del grillo non dà ristoro e l’albero scarno non dà riposo e il cirrus uncinatus, che inchioda a incubi di schiavitù, mentre “dietro di voi c’è un’alluvione di passato e dinanzi a voi s’ingorga il futuro”. Echeggia anche un sermone, in cui brani del discorso finale ne “Il grande dittatore” di Chaplin risultano deformati: l’esortazione a essere uomini e non macchine, difatti, cade nel vuoto, dato che è esattamente il contrario che il sistema si aspetta nell’eterno copione di “nascita e copula e morte”. Mario non resta inerte. Ai messaggi foschi reagisce sulle note dell’ouverture de “La gazza ladra” rossiniana con una bandierina di auguri, un minuscolo albero di Natale e un piccolo pandoro, ricordando la rinascita a cui la celebrazione allude, o scoprendo gli abiti giuntigli per posta o festeggiando il capodanno con tanto di stellina natalizia e mortaretti. Gli indumenti, in particolare, (un baby doll rosso con cui mimerà un atto sessuale), un completo maschile minuscolo e indossato con somma fatica e un muscoloso pupazzo meritevole di sputo sono tutte allusioni a stereotipi duri a morire, con cui si è costretti a misurarsi in modo grottesco. Il personaggio vorrebbe essere semplicemente umano, ma poiché i condizionamenti sociali sono ineludibili, non gli resta che rinchiudere tutto nell’armadio, che diventa anche la propria bara, mentre l’altoparlante, con la pedanteria del marito di Magda in “Bianco, rosso e verdone”, gli ricorda i documenti da portare con sé, con un lumino e il nano da giardino a vegliare. Resta un cartello con su appeso “Qui c’era il mare”. Diventare se stessi senza catene, mentre suona la canzone di Jannacci, è più di quanto sia concesso ai tragicomici uomini comuni. E si esce dalla sala sapendo che molto di noi si trova lì, in quel grigio, inutile sepolcro.  

“Diario di un dolore”, il racconto di una perdita

 


Perché ricordare?” chiede, a chi le rammenta la morte del genitore un anno addietro, l’lrina delle “Tre sorelle” di Cechov, con cui per un momento la protagonista si identifica. Si potrebbe rispondere che quel ricordo è la nostra pelle, non possiamo sbarazzarcene e, più di qualunque altra esperienza, aprire la porta al dolore permette di capire e capirsi. Percorso affascinante sulle implicazioni della sofferenza e sulla finzione come opportunità di far emergere il non detto, “Diario di un dolore” di e con Francesco Alberici vede in scena un’intensa Astrid Casali, che ha collaborato al progetto insieme a

Ettore Iurilli ed Enrico Baraldi. Lo spettacolo, accolto con favore presso il Piccolo Teatro del Giullare, ha segnato una nuova tappa di Mutaverso, il progetto artistico diretto da Vincenzo Albano. Ispirandosi all’omonima opera di C. S. Lewis, l’allestimento si articola in quattro quaderni e in un epilogo, condividendo la narrazione per analogia del modello letterario e contaminandola con memorie effettivamente vissute, aspetti metateatrali e continue sollecitazioni a indagare la percezione del tormento anche nei suo aspetti illusori, ambigui, destabilizzanti. Si spiega, quindi, la decisione di accogliere gli spettatori con un bicchiere di vino senza alcun confine tra spazio scenico e platea: proprio perchè nessuno ama guardare in faccia ciò che l’affligge, meglio accostarsi a esso attraverso il velo trasparente della performance. Alberici, che ha il dono – sempre più raro in un attore- della credibilità umana, sostiene di aver sempre avuto difficoltà nel concepire gli inizi di una rappresentazione. In effetti, ciò che ha un principio deve necessariamente avere anche una fine, ma quando il dolore diventa l’aria che si respira, quali confini è possibile tracciare? Questo stato d’animo è declinato in due modi diversi. Francesco ricorda la stanza in cui ha vissuto, tra scatoloni e un materasso in terra, a cui ha sempre desiderato sentirsi estraneo, mentre l’autoritratto di Franz Ecke del 1981 per Frigidaire (un giovane dal viso bendato, di cui si vedono solo gli occhi e la bocca) diventa il correlativo oggettivo di un disagio misterioso che è pena e disincanto, ironia e dramma. L’autoritratto mostra un sopravvissuto e poco importa se la storia a cui è legato (un effettivo incidente dell’autore) è falsa: lo sguardo che si intuisce tra le bende comunica qualcosa che persiste e che non può essere ignorato. Quando medita sul “righello del dolore” (provocare un disastro che costringe su una sedia a rotelle il migliore amico, per esempio, fa meno male rispetto a quando si è la vittima), non dà o non sa dare un nome a ciò che prova: riflette sulle sfumature dell’afflizione e chi osserva è spinto a propria volta a guardare dentro di sé, a cercare quel peso che, chissà quando, gli ha mozzato il respiro. Il dolore di Astrid, invece, ha alle spalle una storia. Nel ricordare di aver perso a diciassette anni il padre, modello, antagonista, oggetto di un amore “fuori campo”, mai esplicito, ma vivo, la donna non può che ritrovare se stessa: è attrice, nata nel teatro del padre, di cui ha condiviso la passione fino a giocarsi la fortuna a New York e proprio in quel teatro si è svolta la festa delle sue esequie secondo le sue volontà. Quando i due interpreti restano seri con cappellini giocosi in un diluvio di palloncini, stanno celebrando nella nudità della solitudine e della consapevolezza quella svolta che la perdita sa sempre essere. È una sorta di contraltare alla danza gioiosa con cui hanno, di fatto, dato il via allo spettacolo: occorre tanta energia per farsi a pezzi il cuore. La sistematica rottura dell’illusione scenica, mostrando, per esempio, il trucco nello sbattere la testa sul tavolo o nel fingere di piangere, restituisce al palcoscenico un’inaudita forza liberatoria. La finzione diventa evocazione salvifica di ogni tipo di pena, quella non decifrabile e quella ricostruibile (ma non addomesticabile). Le due figure attivano l’una nell’altra un’apertura incondizionata a ciò che le ha ferite, un ascolto amoroso delle proprie ferite. È lì che può annidarsi la rinascita, il momento in cui le cose possono recuperare un senso. La messinscena prepara, quindi, l’attimo in cui Astrid riceve la telefonata che le annuncia il decesso del padre. Questa fase viene ricostruita con pochi dettagli: il tavolo con il caffè, lo zaino per andare a scuola, il quaderno dell’amica da cui ricopiare la versione di greco, il silenzio di chi ancora non sa cosa porterà il nuovo giorno. Appresa la notizia, il pianto della donna non è solo un pezzo di bravura: l’artificio racchiude l’essenza di un sentimento, lo mostra autentico come forse non accadrebbe in un differente contesto. “Se non riesci a raccontare il dolore, non esiste”, ha affermato Alberici nell’incontro con il pubblico coordinato dal giornalista Michele Di Donato. I corpi, non meno delle parole, raccontano l’indicibile, mentre la viva morte del teatro è la sorgente di ogni inizio.

“La vacca”, emarginazione e desiderio

 Cantare ostinatamente una filastrocca, cospargersi di sangue, mostrarsi più che allegra, perché, si sa, l’euforia gonfia il petto. È davvero una fatica farsi crescere il seno, ma è ancora più faticoso sopravvivere in quel deserto violento che è il mondo. Basato sul testo di Elvira Buonocore, mescolanza accorta di crudeltà e sarcasmo , “La vacca” di B. E.A.T Teatro, per la regia di Gennaro Maresca, ha concluso, tra gli applausi del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, la sezione GEOgrafie, dedicata alla produzione teatrale della Campania, nell’ambito di Mutaverso, il progetto a cura di Vincenzo Albano. Lo stesso Maresca è in scena nei panni di Elia, figura il cui carattere inquietante emerge con sapiente senso del ritmo narrativo, al fianco di Vito Amato, che costruisce con rara dedizione il personaggio di Mimmo, e di Anna De Stefano, indimenticabile nella multiformità espressiva della protagonista Donata. Quest’ultima, in effetti, sembra racchiudere in sé tutte le categorie possibili (folle? Disadattata? Bambina mai cresciuta? Vittima? Vera artefice della situazione di turno?) 

per poi farle a pezzi nel suo essere pura pulsione, energia dilagante, desiderio di aprirsi a qualcosa che non sia lo squallore quotidiano. Vederla ballare e muoversi sulle note di “So this is love” o “Vai” di Nino D’Angelo, come se non attendesse altro che l’attenzione altrui in una scenografia ridotta all’essenziale (una coperta dove si avvolge col fratello Mimmo, una scala a cui sono appesi indumenti poveri, un casco da lavorante) è un modo per sentirsi viva, per proiettare se stessa nel mondo in attesa di una risposta che manca o comunque non è quella che vorrebbe. La stessa Buonocore, del resto, nel colloquio post spettacolo con la giornalista Erminia Pellecchia, ricorda che il nome della giovane non è casuale: lei vorrebbe donarsi alla realtà, ma si dà per scontato che sia stata “concessa” secondo parametri maschili in una condizione non dissimile dalla vacca che, ingravidata secondo i piani dell’allevatore, è percepita come uno strumento e mai come un essere. Donata incarna una viva esuberanza infantile: quando, all’inizio della messinscena, chiude felice gli occhi, lo sgradevole rumore di fondo sparisce, per poi tornare quando si guarda attorno; nell’ammirare come un panorama favoloso quella che, con ogni probabilità, è una degradata periferia, ha la pretesa fanciullesca di rendere reale la propria volontà. Nel creare un beat sull’aridità della gente, sta guardando in faccia senza filtri l’ipocrisia e la povertà spirituale degli esseri umani, ma nella ricerca ossessiva di un’intervista, in cui sogna di dominare tutti, forte della propria bellezza (sapere di essere emarginata la induce alla rivalsa) non si limita a riflettere la fame di celebrità di questi tempi accartocciati:  è un corpo che vuole essere riconosciuto fino in fondo nella sua fertilità di sensazioni. Da qui la voglia di avere un prosperoso decolleté per uscire dall’invisibilità a cui la condanna lo stato di outsider. In lei si attuano tutti gli aspetti perturbanti del femminile: la sensualità, lo stregonesco, il sacro (la coperta che indossa a volte come una Madonna), l’impudente a cui si contrappone il fratello in un ambiguo apporto di padrone/amante/complice. “Il posto nostro non è niente di preciso- dice Mimmo –C’è stata una dimenticanza…Si sono dimenticati di farci succedere qualcosa”. Eppure non si è mai abbastanza lontani dal buio che abita le persone. Elia cerca con toni tra l’elegiaco e il tragicomico le cento vacche sparite in una notte e si presenta a più riprese ai due fratelli, per poi scoprire che sono stati proprio loro a macellarle clandestinamente. È significativo che l’insegna Mattatoio, nascosta per gioco da Donata, ricompaia proprio quando il mandriano le usa violenza per vendicarsi, trattandola, appunto come una vacca inerme. Poiché, inoltre, anche Elia si sente al centro di un’intervista, dato che è lo sguardo altrui a legittimare le vite, quando si allontana, lasciando la ragazza per terra come una bambola rotta, a disagio come chi è colto sul fatto, esorta coloro che lo osservano a essere brave persone. Il cuore buio degli individui spaventa più di qualsiasi desolazione. 

“Vito Carnale”, un’anima scissa

 

Che il buio dell’anima ambisca alla purezza con forza ancora maggiore di chi ama la razionalità è idea di cui l’arte è innamorata da sempre. Non importa quanto quell’altrove appaia una chimera: abita la carne con la stessa tenacia del vizio e delle ossessioni. È una discesa agli inferi e un inesausto bisogno di luce “Vito Carnale (centripeta) – Trascendenza disturbante in atto unico”, lo spettacolo, accolto con favore presso il Piccolo Teatro del Giullare, scritto, diretto e interpretato da Egidio Carbone Lucifero al fianco di una carismatica Marcella Vitiello. Una messa in gioco totale del corpo e di ogni energia possibile conduce a una performance difficile da dimenticare nella sua scomoda intensità e nella trama di rimandi filosofici ed esoterici, che mutano continuamente lo scenario. All’inizio della rappresentazione, la donna, seduta in poltrona con l’aria di sfida che solo le regine possiedono, porge un cappio al protagonista e lo terrà inizialmente 
sotto controllo nei suoi slanci irruenti e disturbanti. Difficile orientarsi tra gli stadi della coscienza di un personaggio irrisolto e agitato da forze contrastanti. Non è certo lontano dal vero, quando afferma di avere un tumore allo spirito: tutte le sensazioni e le prospettive, in effetti, crescono in lui a dismisura, impedendogli la calma borghese dell’equidistanza. La donna a cui si rivolge, dal nome evocativo di Angelina, è presentata come la vittima di una violenza efferata: le dice, infatti, “Ti ho spezzato con il piacere approssimativo della leggerezza”. Eppure non si tratta di un vero e proprio corpo, ma di un ibrido che riunisce carnalità, desideri incompiuti, tensione oltre la materia e contraddizioni dell’esistenza. Angelina è sarcastico contraltare, una Beatrice senza redenzione o saggezza, ostinazione della memoria, consapevolezza di come amare il tempo, il vento, il silenzio equivalga a un varco tra gli infiniti inganni della cosiddetta realtà. Vito, dal canto suo, anche quando si libera dal laccio, ma non dal pensiero di questo simbolo, non può che misurarsi con le maligne assurdità dell’esistenza individuale e collettiva. La domanda “Conosci qualcuno che mi può vendere almeno un chilo di equilibrio?” è destinata a cadere nel vuoto, ma non per questo il protagonista cessa di sputare la propria rabbia. Odia “questa società scialba, confusa”, che “è come una condanna alla brevità della vita”; detesta ogni forma di ipocrisia (“Con quale persona meschina ti stai alleando?”). I benefattori abusivi e gli uomini che si fanno comprare da tutti suscitano in lui una rabbia profonda. Ecco perché non può fare a meno di alimentare fantasie omicide su Angelina, mentre la invoca continuamente: proiettarsi verso una dimensione del tutto diversa da quella in cui agisce è un’urgenza talmente profonda da somigliare a un’insopportabile schiavitù, ma ciò non basta a cancellare tale impulso. La duplicità della narrazione, quindi, fa sì che le due figure in scena si alternino nella recitazione come mosse dallo stesso afflato. Vito è un ossimoro vivente: si definisce “fragile come zucchero filato, ambiguo come uno squalo” ed enumerare tutto quello che di insopportabile c’è in lui (l’odore di pesce putrefatto della casa, il sudore, il continuo oscillare tra aggressività e accoglienza, tra elegia e lotta) e nella quotidianità vuole essere uno sprone a superare di slancio le zavorre della mente. Ama ripetere che è venuto a trovarlo il suo cavallo bianco, con chiaro riferimento al mito platonico della biga, e vuole essere condotto “in quel posto rosso, quel posto dove non esiste il mese di agosto, dove non esiste la legge del corpo”. Si tratta dell’approdo della sapienza alchemica lungo le fasi Nigredo, Albedo, Rubedo, un riscatto dalle trappole della corporeità per giungere alla piena liberazione dello slancio vitale. La meta, tuttavia, è resa impervia dai limiti di quel groviglio informe che è la natura umana. Quando si afferma che Heidegger non ha voluto cedere i propri appunti sulla metafisica, perché occorre comprare il suo libro, si sottolinea sarcasticamente quanto l’obiettivo sia lontano. Le particelle, inoltre, non subiscono l’azione del tempo, ma noi sì. E il tempo è un continuo sottrarre, scarnificare, impoverire. Nelle tenebre misteriche, ben distanti dall’arroganza del Sole, che pretende di condizionare ogni sguardo, può forse annidarsi la salvezza. Risulta, allora, coerente che la voce di Enzo Moscato, esploratore dell’oltre, risuoni mentre un bicchiere di vino avanza su una piccola macchina semovente. Il vino è sacro a Dioniso, dio della parte oscura della mente, oltre che del teatro, e il tradimento di sé, cioè il superamento della materia, è ribadito dall’acqua di un bacile in cui Vito immerge la testa. La rottura del bicchiere è un amaro finale. Il posto rosso tenacemente sognato resta un’ambizione, un’ammaliante potenza che non diviene atto. Il caos della vita ci attornia, ci rende soli, persi tra fantasmi su cui riversare un amore illogico e brutale.
 

mercoledì 6 agosto 2025

“Polmoni”, il respiro dell’amore

 

Mettere al mondo un figlio? Nulla di più naturale, penserete voi. Se però il pianeta è al collasso a causa dell’egoismo umano, cosa può assicurarci che non sia un errore fatale? Catalogo ironico e dolceamaro delle trappole che una coppia (o, per meglio dire, l’intera umanità sotto ogni cielo) sa costruire a se stessa, “Polmoni” di Duncan Macmillan, nella traduzione di Matteo Colombo con la supervisione di Giovanni Malafronte, ha conquistato il pubblico del Piccolo Teatro del Giullare, segnando l’atto di nascita della Compagnia Mar Giomitch. Merito della completa consonanza tra gli interpreti, Michele De Paola e Marisa Grimaldo, che tratteggiano con ammirevole dedizione caratteri che s’impongono immediatamente all’attenzione degli spettatori in un’accorta equidistanza dal ricatto emotivo e dal dramma da tinello a cui tanto cinema italiano recente ci ha abituato. In una scena spoglia, in cui il passare del tempo è affidato interamente ai movimenti corporei, lui, musicista che si fa faticosamente strada, e lei, impegnata in un interminabile dottorato, sentono cadere su di sé un’autentica granata nel momento in cui il partner propone di diventare genitori. Le paure e le ansie della compagna sembrano invadere il palco e attirano in un vortice sarcasticamente nevrotico anche il giovane, che è solo all’apparenza più razionale di lei. Non si tratta di un pensiero totalmente nuovo: molte volte lei si è immaginata “splendente nella maternità” e sollecita verso il piccolo, ma il padre è sempre rimasto genericamente sullo sfondo. Non è mica facile compiere il balzo dal sogno alla realtà. Contribuire all’accumulo abnorme di anidride carbonica per colpa dei pannolini appare, inoltre, un sacrilegio in un menage sinceramente ecologista. E poi loro sono davvero le brave persone che hanno sempre pensato di essere? Lui, d’altro canto, sottolinea che gli individui davvero meritevoli di genitorialità attendono all’infinito un inarrivabile momento perfetto per riprodursi, per cui restano solo gli idioti e i superficiali a seminare prole ovunque. Fin dalle prime battute, quindi, giocate su un ritmo a dir poco dinamico, si comprende come il vero cimento sia comunicare. In un progetto che dovrebbe rappresentare la perfetta fusione dei protagonisti, emergono divari e incomprensioni che inducono a gettare uno sguardo diverso sul percorso fino a quel momento vissuto insieme. Lei teme di essere prigioniera di uno stereotipo, lui non vuole soffermarsi sulle inquietudini che il bambino porterà con sé. Confessarsi fino in fondo dubbi e timori appare problematico e avviene solo nel momento in cui i due siano messi alle strette dalle circostanze. La scelta della gravidanza è presa durante una serata in discoteca: il peso dei pensieri, infatti, è troppo opprimente; meglio abbandonarsi all’emozione del momento. Anche il sesso, tuttavia, non è affrontato all’unisono: lei percepisce come minacciosa l’irruenza di lui, a cui basta identificarsi col proprio pene. Quando, però, avviene il concepimento, la sfera della discoteca che funge da pancione diventa multicolore, perchè quella cromia sempre cangiante allude ai sogni che circondano l’imminente nascita. Ogni nuovo inizio mette a nudo la fragilità. Lui confessa cosa stia provando mentre lei dorme : “Mi credi forte, ma sono paralizzato”. È talmente facile restare sepolti sotto le aspettative della persona amata e donarsi l’uno all’altro richiede un coraggio che mozza il fiato. È per questo che si soccorrono in un bacio, quando la tensione diventa insopportabile. L’amore è il respiro da ritrovare nel momento in cui tutto sembra insormontabile, anche se questo non salva dal dolore. La perdita del figlio scava un abisso tra gli amanti: è eloquente l’immobilità impietosa di lei, mentre lui si muove avanti e indietro, fingendo il rassicurante andamento della quotidianità. Il bacio a una collega da parte di lui dimostra una volta di più quanto la sofferenza li abbia spinti a distanze siderali, proprio mentre lei ha atteso a lungo di essere compresa. Svolta banale? È la vita stessa a esserlo a volte e il copione osserva lucidamente il modo in cui gli esseri umani si affezionano alle nevrosi. È, però, vero che il postino suona sempre due volte. Gli ex fidanzati si ritrovano al funerale della madre di lei (tutto ciò che comincia o ricomincia si costruisce su qualcosa che è in cenere) e si concedono un’avventura che porta la giovane a una nuova gravidanza nel momento più inopportuno, dato che lui è in procinto di sposare un’altra donna. Non si può, tuttavia, impedire a qualcuno di respirare e, di conseguenza, di capire quale individuo vaga davvero il proprio tempo e, in una istantanea accelerazione degli eventi, diventano un padre e una madre amorevoli e capaci di fronteggiare la paura del cambiamento. Capiscono di poter continuare la propria strada solo insieme, attraversando la solitudine, la vecchiaia, la morte, mentre, nei momenti drammatici, le loro labbra restano incollate per nutrirsi di una linfa, che solo un sentimento autentico può infondere. Il mondo può essere molto freddo e inospitale. Bisogna riprendere fiato amandosi e ricominciare a scommettere su quel banco truccato che è la vita.   

“Opera didascalica”, contro la tirannia del senso

 

Quegli occhi perennemente addosso. L’urgenza –di più: la costrizione- di dare sempre un senso a ciò che si fa. Sapere che spostarsi, cioè cambiare prospettiva, non porta a nulla. Come diavolo può fare un attore a fronteggiare un logoramento simile, soprattutto se è la vita stessa un eterno, illogico impasse? Spettacolo di rara intelligenza sulla fruttuosa inutilità del palco, “Opera didascalica” del collettivo Ctrl+Alt+Canc ha segnato, presso il Piccolo Teatro del giullare, una nuova tappa nel percorso di Mutaverso, la stagione curata da Vincenzo Albano e incentrata su GEOgrafie, la sezione sulla drammaturgia campana. L’autore, regista e interprete Alessandro Paschitto, Raimonda Maraviglia e Francesco Roccasecca hanno anticipato i loro progetti futuri nel dibattito condotto dal giornalista Michele Di Donato : una “Vita di San Genesio”, che sta impegnando i protagonisti in una residenza artistica in Toscana e “Sesso”, che indagherà gli incerti confini di genere. Il limite tra scena e platea, intanto, è del tutto inesistente nell’allestimento proposto con successo, ben oltre ogni forma metateatrale: si inizia a luci accese, i tre, senza alcuna scenografia, osservano a lungo il pubblico tra perplessità e disincanto, il sipario è presente solo per quei brevi istanti in cui si vorrebbe sfuggire invano all’attenzione di chi osserva. Ogni gesto, ogni silenzio è un’implacabile e ironica scarnificazione di qualsiasi attesa propria dei fruitori del teatro. Il titolo stesso è antifrastico, perché nulla può essere chiarito e insegnato dove il vuoto mangia vivi e la pressione  di riconoscersi in una categoria schiaccia più di un macigno. L’attacco all’assodato inizia dalle antiche bugie, lo spazio e il tempo. Il luogo in cui si recita dovrebbe essere quello in cui una realtà alternativa prende forma, magari indicando una via, ma se il semplice andare da un punto all’altro deve presuppore un avvenimento, legarsi a un messaggio, essere inquadrato in qualcosa di riconoscibile per poi risultare meno di zero, si resta a metà strada tra potenza e atto o, per meglio dire, perdono spessore sia l’una che l’altro. Quando gli attori invitano gli spettatori a tossire con accompagnamento di fischietto sulla parola qualcosa, anche il coinvolgimento di chi osserva è sarcasticamente fatto a pezzi: tanta fatica a cercare emozioni, mentre sarebbe bastata una bella broncopolmonite! Tutti i tentativi di proporre una narrazione coerente, dalla disperata Cassandra al giovane in lacrime con un uccello impagliato, passando per la svampita casalinga desiderosa di sedurre un idraulico restano monchi, perché la trama, definita l’affannato muoversi tra i mobili, cioè l’imboccare un sentiero chiaro, non può più bastare al disagio di essere lontani dagli appigli. Anche farsi un selfie mentre il proprio volto è coperto da uno specchio non è la risposta: a cosa può condurre riflettere quelle immagini in cerca di collocazione che sono gli astanti? Ecco perché l’attrice vorrebbe essere una cosa: nessuna aspettativa, nessuna responsabilità. Diventa, a questo punto, naturale che uno degli attori vada alla postazione luci (un improbabile faro da discoteca si accende di tanto in tanto, a dimostrare il peso di essere sempre e comunque al centro dello sguardo altrui): se ogni schema salta, il concetto stesso di ruolo e imitazione – scomodando Aristotele- si sgretola e l’uomo rimasto realizza i pensieri della donna in un confronto serrato sull’assenza, intesa come ripensamento del tempo e bisogno di riempire un vuoto d’aria, un pezzo di niente. Il telo bianco che scende e ricorda la pagina lasciata vuota nelle pubblicazioni accademiche è un manifesto programmatico: si può solo riflettere la fuga dal solco prefissato, ascoltando chi si perde nel buio della solitudine, esattamente come fa, nella conclusione, l’attrice verso il regista. “Forse, dico forse, un giorno apparirò”, dice. Non sappiamo quanto l’epifania del ritrovarsi sia possibile, ma il teatro sa ascoltare, anche quando tutte le altre luci si spengono.          

Eterno ripetersi banale”, la lotta all’ovvio

 

Entrare in un equivoco locale notturno in cui trovare qualcuno che sia il proprio sbiadito riflesso? Un cliché. Bere brandy e giocare con una misteriosa parola d’ordine? Ancora un cliché. Fare il proprio ingresso con una maschera e un lume in mano, mutandosi in metafora polisemica? Visto e rivisto a più riprese. Come sfuggire alla palude dell’ovvio, che risucchia nel nulla ogni slancio? Anche il pubblico è continuamente sollecitato nella risoluzione del problema in “Eterno ripetersi banale”, lo spettacolo del collettivo livornese Adda, presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, in cui Leonardo Ceccanti (autore del testo), Matteo Ceccantini (regista) e Matteo Risaliti dimostrano un energico e accattivante dominio del palco. La messinscena segna una nuova tappa nel percorso di Mutaverso, il progetto artistico a cura di Vincenzo Albano. Nell’incontro con gli spettatori condotto dal giornalista Michele Di Donato, la compagnia ha affermato che la sincerità, nel proprio lavoro, è tutto e che non si può inseguire un obiettivo, se non lo si sente nelle proprie corde. Nell’allestimento, tuttavia, è proprio la sincera presa d’atto a mostrare la corda. Le tre figure (una didascalia vivente e due protagonisti) cercano in ogni modo uno spessore creativo che le riscatti da una condizione inaggirabile e castrante: essere funzioni narrative, elementi di un testo che dovrebbe farsi sangue e ossa e puntualmente si scontra con soluzioni già adottate, sentieri già percorsi. Fare il verso degli indiani per decostruire il linguaggio, indicare gli attori semplicemente come “uomo” per dissolvere l’identità, fare della pagina bianca l’origine di una nuova performance, per tacere del desiderio di picchiare le persone in poltrona, sono tutte scelte ormai da tempo tramutate in stereotipi. La didascalia stessa è una convenzione e abbandonare i compagni di viaggio per poi ripiombare gridando “Fine” non è una soluzione. Chiamati continuamente in causa sulla trama e sul loro rapporto con i gesti e le bugie di una quotidianità asfittica, gli spettatori non sono d’aiuto nell’impasse, mentre si scontrano il personaggio desideroso di innovazione e quello che comprende come sia impossibile tenere il ritmo di un mondo che corre a precipizio. Chi li osserva all’opera, dopotutto, non cerca mica nel teatro una ragione per andare avanti: ha bisogno di un lavoro, di cibo, di droghe leggere. Certo, il teatro esiste per nutrire gli sguardi. Ma quando anche quegli occhi non conducono da nessuna parte, non è meglio ripiegare su qualcosa che sia accessibile a tutti, invece di spendere ogni energia alla ricerca dell’inafferrabile? Dosando abilmente il sarcasmo e il pathos, un’azione scenica sull’impossibilità di concretizzare tale azione diventa una riflessione sul limite, su quanto paradigmi e condizionamenti ci serrino la gola e su come la partita tra significato e significante sia da sempre truccata. Attente scelte drammaturgiche rendono il discorso felicemente ambiguo. Quando i due interpreti fingono di puntarsi addosso una pistola dopo aver imboccato il vicolo cieco della cosiddetta normalità come riscoperta di sé (una panchina, due amici, chiacchiere banali nell’intento di giungere a chissà quale dimensione interiore) per poi minacciare la platea, ricordano che l’essenza del palcoscenico è il conflitto: elemento lontanissimo dalla comoda acquiescenza al già detto e al già vissuto. La scelta audace di esplicitare i sottotesti, cioè di chiarire quel che vibra oltre le parole e i convincimenti, lasciando che il buio illuminato appena e rumori evocativi invadano tutto (una campana, il mare, la risata di un bimbo) è un ritorno al principio dell’uomo misura di tutte le cose, da cui è nata ogni evoluzione. Quando è la didascalia stessa a minacciare gli altri due a mano armata, ma scarica, per poi fare in mille pezzi il testo a cui tutti hanno finto di attenersi, scatta l’identificazione con ciò che è sempre esistito in funzione di qualcos’altro (l’indicazione di un copione, appunto) e vuole finalmente lasciare un segno di per sé, senza vincoli. In quell’attore, che entra nel quadrato tracciato con il nastro adesivo dove si attua la rappresentazione e che mostra come tutto sia possibile, risuona il desiderio di chiunque di pensarsi al di fuori del sistema. Neppure questa è, però, la via. I tentativi di evadere da solchi prefissati si concludono tutti dinanzi all’orrido rischio di banalizzare ogni dettaglio. Il momento in cui, eliminata parte del nastro in terra, gli attori sembrano disarmati, mentre la didascalia ricompone i pezzi del copione, non è una resa, ma l’urgenza di un nuovo inizio. Si scopre che la parola d’ordine è soggetto: quello di una drammaturgia, ma anche quello che non teme di essere unico. Essere unici, viene detto, significa, infatti, non essere riconosciuti, scontare il prezzo di non essere collocabili in una prospettiva comune. È per questo che i teatranti, dopo aver rivolto al pubblico l’ultima, ovvia domanda, si coprono gli occhi come all’inizio dello spettacolo. In un buio fuori da ogni attesa, può rinascere, forse, l’eterna sfida di un corpo che si fa parola e pensiero, senza temere che le luci in sala non si riaccendano più.  

“Sergio”, le ambiguità del quotidiano

 


Si dà troppo spesso per scontato che la routine non riservi alcuna sorpresa, che non circondi alcun mistero. Eppure ciò che è sempre sotto gli occhi non si lascia mai decifrare fino in fondo. Spettacolo adatto a irritare gli epidermici, che hanno la sensazione (sbagliata) di trovarsi dinanzi a una vicenda eccessivamente semplice, “Sergio” di e con Francesca Sarteanesi, che si è avvalsa della collaborazione drammaturgica di Tommaso Cheli (i costumi sono di Rebecca Ihle), ha segnato, presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, la nuova tappa di Mutaverso, il progetto culturale diretto da Vincenzo Albano. Nell’incontro con il pubblico successivo alla messinscena, moderato dal giornalista Michele Di Donato, l’attrice ha dichiarato: “Volevo che nel testo non accadesse nulla. Non si tratta di puntare il dito contro il quotidiano: la mia protagonista non è una succube. Non giudico la scelta di vita di mettere in luce gli aspetti della persona amata”.  Una performance, tuttavia, può spingersi oltre le intenzioni di chi la crea senza tradirne le premesse. Che la figura maschile sia il centro attorno a cui ruota ogni cosa è fin da subito evidente: la donna, che parla con marcato accento toscano e di cui ignoriamo significativamente il nome, è sola nel vuoto completo del palco. Fa eccezione soltanto un bicchiere d’acqua, poggiato in terra, da cui ogni tanto beve a piccoli sorsi, proprio come una pianta che trae il proprio nutrimento da un elemento esterno. L’attrice e regista riesce a donare credibilità e forza a un personaggio quasi sempre immobile, una sorta di meridiana che scandisce l’unico tempo che valga, quello del convivente, e che giudica ora con atteggiamento bonario, ora con sarcasmo le scelte e le circostanze tra cui si muove un marito ingombrante, anche se non visibile. Sergio ama organizzare le vacanze con i genitori; suggestivi, i luoghi scelti dalla suocera, afferma lei, ma anche la suggestione stanca. Ha l’abitudine di lasciare aperte le bottiglie di acqua minerale; tanto vale, ribatte la moglie, comprare quelle di acqua non gassata. Ama andare agli appuntamenti in ritardo, quando è infinitamente più saggio muoversi per tempo. È ugualmente sordo alla cura del sudiciume del giardino come alla possibilità di concedersi una seconda colazione. È abilissimo nelle scenette western che fanno eccessivamente sbellicare, negli interminabili pranzi a base di pesce, Giuliana, l’amica della suocera, che non risparmia battute aspre sul menage dei due (“Dalle stelle alle stalle!”) e che discute con la madre di lui di ogni sofisticato argomento di attualità. I borghesi, del resto, non perdono occasione per sfoggiare una cultura e una consapevolezza che esistono soltanto nei loro sogni. Non sfuggendo, inoltre, al ritratto dell’italiano medio, Sergio elenca una serie di donne, quando la consorte lo invita a un gioco in cui indicare ciò di cui sentono entrambi la mancanza. Ed ecco che l’ordinario sbarra la strada a una piena comprensione. La mente di lui è spesso lontana e, quel che è peggio, ama quella lontananza: impossibile calcolare quanto tempo si rifugi in un altrove destinato a restare inaccessibile a chiunque altro. Si potrebbe affermare che la ritrosia a svelare i propri reali sentimenti è pari in lui a quella della coppia di amici, presso cui Sergio e la sua lei si recano per portare un regalo, ben nascosti in camera per sottrarsi all’incontro con quelli che, con buona probabilità, hanno definito “pallosi”. Facile bollare in questo modo la convivenza: quelli che esprimono questo giudizio non immaginano certo che Sergio abbia comprato delle manette per chissà quale gioco erotico, accettato dalla moglie per sfuggire al grigiore di una domenica qualunque, ma che le mette il gelo addosso se prova a ricordarlo. È, dunque, evidente che, per quanto il legame rinasca sempre da se stesso, vi è un’inconciliabilità tra la donna e il suo compagno: per lei è fondamentale “essere puliti, precisi, perbenino”, a Sergio basta essere del tutto concentrato su di sé, andare “dritto per la propria strada, dritto come il gambo di un dente di leone, che tutti chiamano piscialetto”. Ammirazione e maliziosa coscienza della velleità, desiderio e approccio da coniugi ormai vecchi diventano indistinguibili. Non è certo un caso che lei intoni “Canzone per te” di Sergio Endrigo, incentrata su una relazione che non sa morire, pur non avendo motivi per vivere. Da parte della figura principale non si ha un conflitto aperto, ma una vicinanza scricchiolante, una tendenza a cogliere la dissonanza non per risolverla o condannarla, ma semplicemente perché Sergio resta l’argomento preferito di una persona che accetta i confini di una vita orgogliosamente granitica. Si assiste a un autoinganno con sparuti lampi di consapevolezza che non portano da nessuna parte. Quando lui vuole sbarazzarsi delle mattonelle del bagno a cui lei si è ormai da tempo abituata, gli dice, risentita per il cambiamento: “Lo sai quanto ci vuole a creare un equilibrio?”. Crearlo comporta senza dubbio un’immensa fatica. Credere che non esista nient’altro, però, costa molto di più.