mercoledì 13 agosto 2025

“Strada maestra”, il legame tra uomo e natura

 Fare a meno del giudizio e dell’io. Aprire i sensi a qualsiasi percezione, lasciandosi attraversare in silenzio da tutto ciò che venga intercettato. Limitarsi a un’osservazione oggettiva. È questo che hanno chiesto

Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich , autori e interpreti di “Strada maestra”, al pubblico del Piccolo Teatro del Giullare, accompagnandolo in una camminata nei pressi dell’edificio per poi, al ritorno in sala, condividere con gli spettatori il risultato della loro “relazione”. È il principio dell’ultima tappa di Mutaverso, il percorso artistico curato da Vincenzo Albano, che ha raccolto un ampio successo di critica e pubblico. Un gruppo di persone che osserva silenziosamente tutto, ma non il cellulare, rappresenta già una massa critica, secondo i due artisti, e i luoghi brevemente visitati saranno, nel finale, oggetto di una felice profezia: nel 2125, la plastica sarà catalogata come materiale raro, piazza San Francesco vedrà lo spaccio di idee, la disciplina principale studiata al Liceo Tasso sarà l’utopia. Non è, tuttavia, una fuga nel sogno quella proposta dallo spettacolo, frutto del progetto di ricerca Terramadre, ma una riflessione sul legame tra uomo e natura, che induce a leggere nello spazio della nostra vita il legame tra uno e molteplice, tra individuo e ambiente, ponendo in una luce problematica il peso –troppo spesso trascurato o svilito- di tutto quello che non si riconosce nell’artificiale. La narrazione, quindi, riassume gli incontri e le scoperte con differenti realtà legate alla terra e i cui oggetti-ricordo vanno a comporre un totem che accoglierà in sé l’idea dell’essere futuro, una figura di confine tra passato e avvenire. “Un’operazione semplice non vuol dire facile – hanno dichiarato al giornalista Michele di Donato i protagonisti nell’incontro successivo alla messinscena, annunciando il loro prossimo obiettivo, “Vecchietti”, sulle risorse della mezza età –Il nostro itinerario ha comunque contemplato anche il fallimento e l’amarezza, ma, non essendo teatranti nel senso canonico del termine, abbiamo scelto di porci al servizio della scrittura, che ha riflettuto, appunto le nostre esperienze”. Occorre innanzitutto abbandonare “il proprio metro quadro”, l’ambito delle certezze, dei ricordi e delle paure, simbolizzato da quattro rami che diventano confini da varcare e che confluiranno nel totem costruito passo dopo passo. Nell’esaminare contesti differenti nel presente e in prospettiva, quindi, dove l’osservazione oggettiva non è mai asettica, ma è pieno ascolto della diversità, Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich registrano da ogni punto di vista la relazione tra il singolo e la propria terra. A Crevalcore, per esempio, Maria ha un’azienda biologica, ma le seimila galline stipate all’inverosimile contraddicono la sua visione del naturale. Paolo, veterinario che nutre amorevolmente una nutria con le pere, cederebbe volentieri il bosco non suo a chi lo curasse per i prossimi quattromila anni ed è proprio un alkekengi di quel bosco a essere messo in palio tra gli spettatori, che se lo devono guadagnare a suon di empatia e non di soldi. Ad Amelia, in Umbria, Sandro, col suo grembiule da macellaio sporco di sangue, ha paura del futuro. Ad Anzino, sulle Alpi, Michele si prende in giro e dimentica di essere spastico quando ha il sole sulla pelle e Roberta, che li guida nel caotico giardino che le fa compagnia, li riempie di doni di ogni tipo, perché non ha nessuno a cui lasciarli quando morirà. Si giunge poi a Taranto, dove “il drago dal fiato velenoso la tiene sotto scacco e un giorno la divorerà o sarà divorato”; qui un uomo scheletrico fa guerra alla Coca Cola. Mille Italie si susseguono in un racconto lirico e concreto, struggente e sincero, perché innumerevoli sono gli occhi da puntare sulla natura, anche quando sembrano ciechi, ed è ancora il pubblico a schierarsi quando si immagina un confronto tra essa e l’uomo: la prima gli rimprovera di annegare nell’egocentrismo, di regalarsi ogni sorta di malessere nel momento in cui si allontana dal tutto, il secondo si considera l’unico in grado di legittimarne l’esistenza. Appare, dunque, coerente la scelta di immaginare un futuro armonioso nello spazio in cui tutti si sono mossi all’inizio. Qualsiasi cambiamento parte da ciò che si ha sotto gli occhi e che deve essere concepito come possibilità, non come mero sfondo della propria esistenza. Spetta a ognuno di noi decidere in che misura la dimensione naturale ci appartenga, quale confine scegliere tra il proprio individualismo e ciò che si squaderna tutto intorno. Nei sentieri percorsi, Laura sa di aver ritrovato il pino sotto il quale il padre voleva essere sepolto e Niccolò ha riprovato, almeno per un momento, il brivido di quando, bambino, si fermava ad ascoltare il respiro del bosco. La strada maestra è probabilmente un’utopia, più che un obiettivo, date le contraddizioni degli esseri umani, ma conta sapere che un nuovo inizio può sorgere proprio lì, tra quegli alberi sotto i quali camminiamo distratti.

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