Seduttrice infida, perfida manipolatrice, rovinosa nel suo fascino. Facile attribuire alla maga di Eea epiteti tutt’altro che lusinghieri, ma la verità ama nascondersi e neppure l’immortalità salva dalla ferita della perdita. Protagonista, con il collettivo Grimaldello, di “Porco. Ulisse incontra Circe” per la regia di Antonio Grimaldi, spettacolo che ha aperto il Barbuti Festival, Anna Rita Vitolo ha ottenuto il Premio Natella alla presenza del delegato alla cultura Ermanno Guerra e del consigliere regionale Franco Picarone nella serata condotta da Paolo Romano e. Gilda Ricci. In un’interpretazione appassionata e coinvolgente, in cui sarcasmo, dolore e sensualità obbediscono comunque a un accorto senso della misura, la Circe della Vitolo incarna perfettamente la drammaturgia di Elvira Buonocore, che, pur ispirandosi liberamente a Joyce e Miller, trova la propria cifra in una scrittura tagliente ed evocativa, in cui declinare con notevole sensibilità il perturbante da sempre associato al femminile. È significativo che nessuna delle figure maschili, neppure il protagonista dal multiforme ingegno, pronunci mai una parola: in opposizione alla scelta dell’uomo di essere l’unico artefice delle cose, la scena ha il proprio perno nella maga e nelle sue ancelle/sorelle, che condividono con lei il destino di approdo e, al tempo stesso, di lontananza da coordinate sicure, visto che “nessun uomo è un’isola, ma la donna sì” e l’incantatrice sa di essere “piena di crepe e di anfratti da esplorare”. Circe è estranea per natura a tutto ciò che è considerato razionalmente legittimo: è “l’ennesima donna venuta ad ammorbarci la vita”, i suoi occhi “gialli come il piscio” non lasciano dormire, è la “menomata” che sembra sfuggire a ogni aura divina e anche per questo conosce la violenza. Le donne, che attorno a lei si contorcono al ricordo dell’arrivo di una nave, alludono chiaramente a uno stupro: la regia di Grimaldi, infatti, amplia le sensazioni attraverso un capillare lavoro sulla corporeità che unisce nello stesso afflato o separa nettamente gli interpreti. Nel regno muliebre di Circe, il diritto alla diversità va difeso soggiogando chi non è in grado di comprenderlo appieno (gli uomini che giungono dal fondo della platea in marcia, perché è chiesto loro da sempre di combattere e dominare) e i coltelli delle compagne che affondano nell’anguria simboleggiano l’urgenza di trasformare il desiderio in un’arma. L’opera di seduzione avviene come se ci si trovasse in un bordello d’altri tempi, tra tavolini e bicchieri di vino, dato che l’abbandono alle proprie pulsioni appartiene a ogni epoca, e i maschi che si ritrovano a quattro zampe con una maschera da maiale ad addentare le mele lanciate da Circe si sporgono, come in un trogolo, sul limite del palco a ricordare agli spettatori quanto sia facile precipitare nel degrado. È lei stessa a ricordare come la natura sia inaggirabile: “Si diventa ciò che si è: porci, puttane di mare”. La maschera che la figura principale indossa sulla propria nuca e che non sfigurerebbe in un teatro orientale dimostra come la conoscitrice di incantesimi sia figura trasversale a ogni immaginario, ribadisce il potere, proprio del teatro, di trasformare il reale e cela la natura della dea, che muove come pedine le sue vittime, forte del carisma, per non cedere terreno in un mondo basato sul sopruso e sul rifiuto di ciò che sfugge a comode categorie. L’antico inganno, però, ovvero l’amore, è più forte di ogni magia, quella stessa magia presentata come un lavoro ingrato, gravoso, perché è via per costruire a fatica un’identità non addomesticabile. Quando Ulisse compare in scena, il cuore vacilla : “Sei una lama affilata – gli dice- Dammi qualcosa per cui valga la pena sanguinare”. La danza di attori e attrici sulle note di “Il cielo in una stanza”, dove significativamente gli uomini non indossano più la maschera di porci, liberi per un momento di essere e non di strumentalizzare, è un momento tenero e beffardo: non una banale metafora del bisogno di fondersi all’altro per ritrovarsi, ma un tentativo di prolungare lo squisito tormento di sapersi in due, malgrado tutto. La solitudine, tuttavia, è il destino di Circe: il re di Itaca ha colto la sua anima solo per poi restituirgliela. Un ego troppo ingombrante, evidentemente, per accogliere una creatura che nasconde tenerezza e dedizione dietro le sue temibili arti. Alla dea non resta che tornare a essere isola, sognando che il buio della propria interiorità non resti ancora inascoltato.
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